In questa sessione compaiono sette testimonianze rilasciate a Yad Vashem da sopravvissuti italiani, incluse nel libro “Il presente ha un cuore antico”, curato da Alessandra Chiappano e Fabio Minazzi. Le testimonianze sono conservate nell’Archivio di Yad Vashem ed accanto ad ogni nome ne é segnato il numero. Le note aggiunte alle testimonianze compaiono nel libro; ringraziamo la curatrice del testo per la concessione delle testimonianze e la Thélema edizioni per l’uso delle note.
Figlio di Anna e Nathan, David Cassuto nasce a Firenze nel 1937. Durante la seconda guerra mondiale suo padre prestò servizio come medico e fu rabbino capo della comunità ebraica di Firenze. Nel 1943, con l’inizio delle deportazioni degli ebrei italiani nei campi di sterminio, i membri della famiglia Cassuto si separarono per nascondersi.
Il padre di David apparteneva ad un’organizzazione clandestina e aiutò a portare in salvo diversi ebrei fino a quando non fu scoperto e arrestato. Nel tentativo di liberare il marito, anche Anna, la madre di David, fu arrestata. Dopo essere stati interrogati, i due furono mandati ad Auschwitz. Nel frattempo, David e i suoi fratelli, vivendo sotto false generalità, furono nascosti in varie località, ignari del destino dei loro genitori. Sopravvissuti alla guerra, dopo la liberazione dell’Italia, David, suo fratello e sua sorella emigrarono in Terra d’Israele. Qui furono accolti a Gerusalemme dalla nonna Bice Simcha e il nonno, il Professore Umberto Moshe Cassuto, che si presero cura di loro e li allevarono come figli. David diventerà architetto e docente di architettura.
Yehudit Kleinman è nata a Venezia nel 1939. Poco dopo, la famiglia si trasferì a Milano. Nel gennaio 1944 fu nascosta in un convento dove ricevette un’educazione cristiana. Dopo la guerra, Yehudit dovette prendere una decisione fatidica: rimanere nel convento o emigrare in Israele da ebrea. Passò diversi mesi nella colonia di Selvino, nel Nord Italia. Yehudit è cresciuta in Israele, si è arruolata nell’esercito ed è stata un’insegnante. Ha vissuto la maggior parte della sua vita a Kfar Saba. Yehudit ha due figli.
Testimonianza di Alberto Behar* (0.31/14.8)
Fra l’agosto e il settembre del 1943 stavo a Meina, occupato nella gestione dell’Hotel Meina. In questo albergo vi erano parecchi ebrei di Salonicco. Stavano a Meina nella speranza di poter passare in Svizzera. Ma oramai su tutto il Lago Maggiore imperavano i tedeschi e la fuga veniva rimandata di giorno in giorno. Nessuno di noi però sapeva cosa i tedeschi avessero già commesso nelle altre località del lago.
Il 17 settembre, alle ore 10 del mattino entrarono nell’albergo circa 20 SS, tedeschi e italiani con due interpreti anch’essi in divisa tedesca. Sbarrarono tutte le porte e fecero scendere tutti. Nell’albergo Meina c’erano circa cento persone. Dentro e fuori l’albergo circolavano sentinelle armate. Poi, uno per uno ci vollero vedere tutti e, con registro in mano, verificavano i documenti.
Su quelli di ebrei c’era stampato “ebreo”.
Io, come tutta la mia famiglia eravamo sudditi turchi. Nel mio albergo a quell’epoca era capitato il console turco con altre 17 persone appartenenti al consolato turco. Tutti gli ebrei, compresa la mia famiglia composta di sei persone, furono portate all’ultimo piano dell’albergo e lì chiusi in tre o quattro stanze. Fuori dalle porte sostavano sentinelle armate. Gli altri ospiti dell’albergo, dopo la verifica, furono messi in libertà. Dalla cucina dell’albergo ci mandavano i cibi, prima scrupolosamente controllati. Io e la mia famiglia rimanemmo rinchiusi per 3 giorni insieme ad altri ebrei. Nel frattempo potei informare il console turco, il quale si presentò per perorare la mia causa. Ma il comandante tedesco non volle sentire ragioni, anzi decisero di sbarazzarsi subito di me. Alle 19 della stessa sera mi portarono a Baveno, dov’era il comando generale tedesco e poi a 7 km da Baveno in una villa isolata con intenzione di ammazzarmi. Nelle cantine di questa villa erano ammassati altri disgraziati destinati ad essere ammazzati. Ma non si decisero a procedere senza prima avere l’ordine da Baveno. Intanto il console turco si oppose di nuovo con molta energia al mio arresto dicendo che i numerosi tedeschi che allora si trovavano in Turchia, avrebbero risentito le conseguenze di questo arresto. Ciò indusse il comandante a dare ordine di ricondurmi a Meina.
Al ritorno misero me e la mia famiglia non ci misero più insieme agli altri ebrei, ma in un piano inferiore con l’ordine tassativo di non uscire dall’albergo. Così passò un altro giorno. La sera vennero due tedeschi vestiti in borghese, con un’ auto senza targa, e chiesero di parlare con me. Per non essere sentiti da nessuno - così vollero - ci appartammo nella dispensa. Lì, un po’ in italiano e un po’ in francese mi spiegarono che, su ordine del mio console, erano venuti a salvarmi. Senza rispondere né sì né no uscii dalla dispensa e loro dietro a me. In quel momento passava per il corridoio il vice-console turco. Gli chiesi cosa dovessi fare e mi disse di non seguire i due individui, che non vollero dare a lui nessun spiegazione. Durante questo colloqui, tutt’altro che tranquillo, nessuno dei 40 circa SS si avvicinò a noi. Si vedeva chiaramente che volevano farmi fuori ma rimanere “con le mani pulite”. Questo incidente mi indusse a tagliare immediatamente la corda. E così, prima io, poi i miei famigliari, uno per uno senza portare niente con noi, uscimmo dall’ingresso laterale dell’albergo, e dopo un giorno ci riunimmo tutti a Varese. Nelle notti precedenti la nostra fuga sentivamo dei rumori sospetti e allora, senza accendere la luce, da un finestrino del bagno, potemmo osservare i nostri aguzzini che, due volte per notte, venivano con una macchina, caricavano 4 ebrei per volta e scomparivano. In seguito sapemmo, che a quelli che rimanevano nelle stanze dell’ultimo piano, i tedeschi spiegavano che queste persone venivano trasferite nel campo di concentramento. Ma la triste verità fu presto scoperta. Una mattina, sulla superficie del lago si vide galleggiare un cadavere. Era il sig. Tores, uno degli arrestati. Anche altri cadaveri furono visti affiorare. Così la popolazione seppe che i tedeschi mettevano i disgraziati ebrei in una barca, poi li derubavano di tutto ciò che avevano, gli legavano pietre al collo e li buttavano nel lago. L’ultimo delle loro vittime fu un vecchio di 80 anni con due nipotini. I ragazzi furono trovati legati insieme. Gli stessi crimini commisero gli assassini tedeschi a Stresa, Baveno, Arona.
Eravamo nel pieno XX secolo!
* Alberto Behar , proprietario dell’Hotel Meina era residente a Milano in via Bigli 20. La sua testimonianza è stata resa nel settembre del 1960. Per un’analisi più approfondita sulla prima strage di ebrei in Italia avvenuta nel settembre 1943 cfr. Aa. Vv La strage dimenticata. Meina settembre 1943. Il primo eccidio di ebrei In Italia, Interlinea Edizioni Novara 2003. In particolare si segnala la testimonianza di Becky Behar, nipote di Alberto e il saggio di Mauro Begozzi, La strage dimenticata: bilancio degli studi, op. cit. pp. 49-66. Si segnala inoltre il volume di Marco Nozza, Hotel Meina: la prima strage degli ebrei in Italia, Mondatori, Milano 1993.
Testimonianza di Emerico Berio* (0.3/3424)
Sono nato a Fiume il 9 giugno 1910, mio padre si chiamava Enrico e mia madre Berta, nata Bauer. Mi sono laureato in medicina-chirurgia nel 1934 all’Università di Milano. Mi sono sposato nel 1938, mia moglie si chiama Luisa nata Pini. Ho un figlio, Duccio.
La nostra famiglia era piuttosto assimilata, ma mio padre era religioso ed osservavamo le tradizioni ebraiche abbastanza scrupolosamente, benché mia madre non fosse tanto religiosa. Il nostro ambiente era prevalentemente cattolico.
Mio padre era direttore della ditta S. &. W. Hoffmann, in seguito denominata Società An. “Intercontinental”, con sede a Fiume, però mio padre viaggiava moltissimo per affari, visitando parecchi paesi dell’Europa, con la famiglia.
Dopo essermi laureato e fino all’8 settembre 1943, svolgevo la mia professione a Milano.
Subito dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali, nel 1938, mi sono messo in rapporto con elementi del Movimento G. L. (Giustizia e Libertà), sotto gli auspici del Partito d’Azione (liberali con tendenze socialiste).
Fino all’anno 1942 rimasi in servizio normale alla “Clinica del Lavoro” (presso l’Università di Milano) e dovetti lasciare il posto in seguito alla denuncia di un mio collega, medico, alla medesima Clinica. Fino all’8 settembre 1943 lavoravo come libero professionista, l’11 settembre me ne andai in Svizzera, facendo la traversata per la montagna, e pochi giorni dopo mi feci raggiungere dai miei genitori che furono internati in un albergo di Lugano (Albergo “Flora”) rimanendovi fino alla fine della guerra. A Lugano ero a piede libero (non in un campo), in rapporti con la delegazione svizzera del C. L. N. (Comitato Nazionale di Liberazione), il cui capo era un democristiano, l’avvocato Pezzotta di Bergamo. Io aderii al PSIUP (Partito Socialista di Unità Proletaria) che aveva il suo rappresentante in Svizzera nella persona dell’avvocato Vigorelli. Ho conosciuto allora parecchi attivisti del Movimento della Resistenza, far i quali c’era Giuseppe Saragat. Gli amici trovantisi allora a Lugano, mi hanno messo in contatto con un certo Mr. Jones americano, capo dell’OSS
A Domodossola presi parte all’insediamento, in qualità di Presidente della Repubblica dell’Ossola, del Professor Tibaldi (che fu in seguito Vice-Presidente del Senato della Repubblica italiana e sono rimasto in rapporti amichevoli con il suddetto fino alla sua morte avvenuta due anni fa). Questo fu il primo organismo libero sul suolo italiano ed il fatto ebbe luogo nell’estate del 1944. Più tardi Cannobio è stata ripresa dai fascisti che combattevano accanto ai tedeschi, ed in questa azione essi hanno fatto dodici prigionieri fra i miei ragazzi, fra cui un ufficiale il cui nome di battaglia fu Mosca, alias avvocato Michele Fiore di Milano. Siccome anche noi avevamo dei prigionieri fra le Camicie Nere, le autorità tedesche, mediante un sacerdote di un villaggio in Val Cannobina, ci hanno fatto la proposta di scambiare i prigionieri. Per convalidare tale proposta, m’hanno mandato un salva-condotto (specie di passaporto). Malgrado le dissuasioni ed apprensioni dei miei compagni che temevano per me, pensando che si trattasse di una trappola, mi resi conto che quella era l’unica possibilità di salvare i miei ragazzi dalla morte o, per lo meno, dalla deportazione in Germania. Mi assunsi quindi il rischio e mi recai a Cannobio, e da qui, accompagnato da alcuni soldati fascisti e da un loro ufficiale, fui accompagnato a Varese, attraversando il lago in un battello. Durante il tragitto i fascisti mi deridevano e mi minacciavano. È stato allora l’unico momento in cui temetti il peggio. Attraversata Varese, fui accompagnato alla Platzkommandantur. Il comandante tedesco, maggiore Lebhertz ed il suo aiutante, ufficiale Hoppe, mi accolsero con grande affabilità. L’uff. Hoppe mi accompagnò dai miei ragazzi tenuti prigionieri che non volevano credere alla loro imminenteliberazione. Rimasi alla Platzkommandantur, ospite ben trattato dei tedeschi che facevano parte della Wehrmacht (l’esercito tedesco) e per fortuna non appartenevano alla Gestapo o alle SS. Dopo parecchie conversazioni ho potuto accordarmi sulle modalità dello scambio dei prigionieri, che effettivamente avvenne pochi giorni dopo in Val Cannobina, a poca distanza da Cannobio. Devo rilevare che l’uff. Hoppe mi diede in quell’occasione il suo indirizzo di Hannover, pregandomi di scrivergli a guerra finita. La conoscenza della lingua tedesca mi ha aiutato molto nell’espletamento della mia missione. I miei rapporti con l’uff. Hoppe, allacciati in quella circostanza, sono stati ripresi a guerra finita perché effettivamente gli dovevamo riconoscenza e gratitudine per il suo comportamento altamente umanitario.
Nell’estate 1944 nelle mie numerose traversate per i monti verso la Svizzera, ho potuto procurare le necessarie armi tramite Mr. Jones.
Nell’autunno 1944, durante i grandi e ben noti rastrellamenti effettuati dai tedeschi e dai fascisti, siamo stati costretti a ritirarci a ridosso della frontiera svizzera, incalzati ferocemente dalla Decima Mas (SS italiane).
Vorrei rilevare due episodi molto caratteristici per quell’epoca:
I. Il 26 aprile 1945, nell’immediato dopoguerra, in una cascina, a poca distanza da Milano, vidi da lontano quattro persone appoggiate contro il muro. Davanti a loro si trovava un plotone di partigiani pronti per l’esecuzione dei quattro uomini. Mi sentii chiamare disperatamente per nome da uno dei quattro condannati che gridava: «Berio, Berio, dì loro chi siamo!». Si trattava dell’avvocato Pezzotta di Bergamo con i due figli ed un loro amico svizzero, presi erroneamente per fascisti in fuga. Così riuscii ad evitare un massacro. Il vecchio avvocato Pezzotta, l’ex capo della delegazione svizzera del CLN e già da me menzionato, morì 4-5 anni fa ed uno dei suoi figli, pure avvocato, è sindaco di Bergamo. L’altro figlio anche lui avvocato esercita la professione e ambedue i fratelli sono attualmente soci del Club di Golf a cui appartengo anch’io.
II. Qualche giorno dopo la liberazione, mi recai al Commando sito nel Palazzo del Corpo d’Armata in via Ciovassino (Milano) e sotto l’androne vidi un tale con il fazzoletto rosso intorno al collo. Lo riconobbi subito. Era l’ufficiale fascista che mi aveva accompagnato nella mia traversata del Lago Maggiore da Cannobio a Varese. Gli feci togliere il fazzoletto rosso e minacciandolo di non farsi più vedere da queste parti, lo mandai via.
Questi due episodi caratterizzano in pieno l’atmosfera che regnava n Italia dopo la liberazione, non priva qualche volta di violenza a titolo di rappresaglia.
…Alla fine di aprile-principio di maggio 1945, fui nominato Commissario della ben nota ditta di prodotti farmaceutici “Merck”, su proposta degli operai ed egli impiegati che mi conoscevano e come amico e concittadino del proprietario della ditta il sig. Bracco, che dovette scappare e nascondersi perché durante il regime fascista era Vice-Podestà di Milano. D’altronde, malgrado tali precedenti, devo dire che il signor Bracco e i suoi familiari, benché fossero fascisti, non erano antisemiti, anzi avevano aiutato parecchi perseguitati e perfino in casa loro avevano nascosto un bel numero di ebrei. Quando i Bracco sono riusciti a chiarire la loro posizione ed essere riabilitati, hanno potuto riprendere la loro azienda ed io ripresi la mia professione di medico che esercito tuttora.
Come menzionato sopra, i miei genitori sono sopravvissuti al cataclisma, essendosi ritirati in Svizzera. Anche i loro fratelli e sorelle sono fortunatamente rimasti in vita, sicché la nostra intera famiglia è rimasta sana e salva.
Ho qualche parente (cugini) in Israele e sono già venuto tre volte per visitare il paese e rivedere i cugini. Ci vengo volentieri essendo legato a Israele sentimentalmente.
* Emerico berio, membro di «Giustizia e Libertà». Testimonianza non datata.
- Office of Strategic Services con sede a Berna.
- Decima Mas: formazione autonoma guidata dal principe Junio Valerio Borghese, formatasi durante la Repubblica Sociale Italiana, una delle più efferate bande fasciste., che compì numerosi soprusi, rastrellamenti,saccheggi, incendi, esecuzioni ed eccidi contro i partigiani e la popolazione accusata di adesione al ribellismo.
Testimonianza di Silvana Castelnuovo* (0.3/3148)
Mi chiamo Silvana Castelnuovo, nata Ascarelli. Nacqui a Roma il 2 giugno 1905. Il nome di mio padre era Attilio Ascarelli. Era professore di medicina legale all’università di Roma. Nel 1953 fu chiamato dal signor Amos Ben Gurion, che gli offrì di incaricarsi di formare una scuola per i quadri di polizia in Israele. Non poté accettare tale offerta per vari motivi, compreso quello della lingua. Però venne in Israele in visita e tenne una conferenza per alti ufficiali di polizia in lingua italiana (tradotta poi in ebraico dalla signora Devora Sereni). Scrisse il libro Le fosse Ardeatine, la cui prefazione fu scritta dal presidente della Repubblica Italiana, Giuseppe Saragat. Il 24 marzo 1964, durante la celebrazione del “Ventennale dell’eccidio Ardeatino”, a mio padre fu riconosciuta la Medaglia d’argento alla memoria e consegnata dal signor Antonio Segni, Capo dello Stato, a mia madre, presente alla celebrazione. Il nome di mia madre è Elena, nata Pontecorvo (famiglia molto conosciuta in Italia). Avevo due fratelli: uno Sergio morì nel 1933; l’altro Tullio era giurista, professore di giurisprudenza dell’Università di Roma. Fu tra i fondatori della Rivista Giuridica in Italia e della facoltà di giurisprudenza di San Paolo (Brasile). Scrisse varie opere giuridiche molto apprezzate. Esistono due biblioteche di carattere giuridico a suo nome: una a Roma e l’altra a S. Paolo (Brasile). Un mio cugino materno, Bruno Pontecorvo, fisico rinomatissimo, si trova in Russia. Un altro mio cugino Guido Pontecorvo è professore di Genetica all’Università di Glasgow e membro della Scientific Society of England. Fu invitato all’Istituto Weizman per tenere qualche conferenza. Il terzo mio cugino materno, fratello dei due sopravvissuti, Gillo (Gilberto) Pontecorvo, è un regista molto noto nel mondo del film. Ha vinto la medaglia Leone d’Oro per il film Battaglia di Algeri. Fece pure il film Kapo. Un altro mio cugino materno, Colorni Eugenio, era professore di filosofia, antifascista intrepido. Aveva trascorso molti anni in prigione ed al confino perché era notoriamente contrario al regime fascista. Fu ammazzato due giorni prima della liberazione. Medaglia d’oro in memoriam.
Altri miei cugini fanno parte della famiglia Sereni. Uno di loro, Emilio, è senatore comunista, risiede a Roma. Un mio cugino Enzo Sereni, uno dei fondatori del Kibbutz Givat Brenner, molto conosciuto in Israele, morì a Dachau il 18 novembre1944.
La mia cugina Devora Sereni, vedova di Enrico Sereni, si è risposata con il professore Menachem Eylon, abita a Tel Aviv, via Nacmani 23. La vedova di Enzo Sereni, Ada, risiede attualmente a Roma.
Le scuole da me fatte: il ginnasio; corsi commerciali; presi pure un diploma in lingua francese e l’altro in inglese. Mi sposai nel 1927. Ho cinque figli: Mirella-Devora nata nel 1928, Luciana-Ora nata nel 1929, Giorgio-Gershon nato nel 1930; Sandra-Edna nata nel 1934; Sergio-Chaim nato nel 1937.
Risiedevamo a Roma dove mio marito, Paolo Castelnuovo, si occupava di commercio nel ramo pezzi di ricambio di automobili.
Nel 1936 andò ad Asmara spontaneamente per ragioni di lavoro. Era proprietario di una ditta che lavorava nello stesso ramo, come prima a Roma. Io con i figli stavo a Roma. Fin dal 1938 i miei figli non potevano frequentare le scuole regolari in seguito alle leggi razziali introdotte allora. Nel 1939 mi recai ad Asmara, volendo raggiungere mio marito e sperando di poter dare ai bimbi condizioni normali di istruzione. Poco dopo il nostro arrivo, le stesse restrizioni anti-ebraiche furono introdotte in Asmara. Le scuole erano frequentate lì da bambini negri, mulatti, ma le leggi riguardavano unicamente gli ebrei. Mi recai allora ad Addis-Adeba, per cercare l’appoggio del Viceré il duca Amedeo d’Aosta, volendo assicurare ai figli l’istruzione nelle scuole regolari. La risposta del Viceré fu favorevole, però motivata dalla cosiddetta discriminazione (cioè trattamento di favore), dovuta al fatto che mio padre era stato volontario nella prima guerra mondiale, eppoi essendo stato professore di medicina legale dell’Università di Roma, era molto noto.
Per giunta era conosciuto per i suoi meriti durante la prima guerra mondiale. Non volli accettare il privilegio accordatoci con una tale motivazione, considerando che l’atteggiamento del governo, sebbene favorevole, feriva la nostra dignità come ebrei. Infatti i miei figli sarebbero stati trattati da eccezione, ma in via di regola erano al di sotto di tutti gli altri bambini di varie razze africane e di varie origini e religioni. Mi misi allora in contatto con mio cugino Enzo Sereni che si trovava allora in Palestina, per chiedere il suo consiglio. Egli mi consigliò di mandare i bimbi, facendoli passare per arabi, via Aden (Mar Rosso), promettendomi di piazzarli a Ben Shemen. Dopo aver consultato altri ebrei in Asmara, ben orientati in materia, escludemmo una tale soluzione, considerandola poco fattibile e rischiosa da ogni punto di vista. La ragione principale fu che i bimbi avrebbero dovuto viaggiare come bambini arabi (gli inglesi non davano permessi di entrata in Palestina agli italiani per ragioni di ostilità di guerra con l’Italia). Per giunta era troppo ovvio che i bimbi non erano arabi per il loro aspetto (erano biondi con occhi azzurri). Decisi quindi di tornare con i figli a Roma, e dopo varie peripezie a Bengasi (gli aerei non circolavano regolarmente e non sapevamo se avremmo potuto proseguire). Devo rilevare che tanti ebrei di Bengasi, compreso il rappresentante della Comunità Israelitica, si offrirono di aiutarci e ci trattarono con un senso di solidarietà e di interesse. Per fortuna non ebbi bisogno di particolare aiuto e riuscimmo a prendere l’ultimo aereo arrivando a Roma il 10 giugno 1940, la data nella quale l’Italia dichiarò guerra la guerra agli alleati (la Francia e l’Inghilterra). Mio marito rimase ad Asmara e fummo separati per circa sei anni. Intanto gli inglesi occuparono l’Eritrea e mio marito - come suddito italiano - fu fatto prigioniero civile, però essendo ebreo, non fu mandato nel campo di concentramento dei prigionieri. Lavorava e fu incaricato di espletare varie mansioni alla Croce Rossa Italiana. Per forza di cose, aveva molto da fare occupandosi delle famiglie dei numerosi internati nei campi come pure del loro rimpatrio.
Ritornata a Roma con i figli, dovetti andare ad abitare in casa dello zio Samuele Sereni, padre di Enzo che in quell’epoca si trovava a Givat Brenner. Il mio appartamento era stato da me liquidato prima della nostra partenza per Asmara. Appena venuta a Roma mi ammalai gravemente, i medici sospettavano un tumore maligno. Fui malata per parecchie settimane. Durante l’estate 1940 i bambini andarono a Forte dei Marmi sul Mar Tirreno, ed io li raggiunsi più tardi da convalescente. Per causa delle leggi razziali non potevamo servirci della spiaggia che era proibita agli ebrei. In settembre 1940 ritornammo a Roma. I figli cominciarono a frequentare la scuola ebraica che fu notevolmente ingrandita ed aveva varie sezioni nelle diverse parti di Roma. Fu pure fondata in quell’epoca una scuola ebraica media che prima non esisteva.
Lei può dire qualcosa di più sulle scuole ebraiche?
Dopo l’introduzione delle leggi razziali, fu aperta a fine del 1938 la prima scuola media ebraica in via Celimontana. Poi nel 1940 fu aperto l’Istituto Tecnico in via Balbo ed una sezione della scuola media, come continuazione della scuola elementare già esistente al nome del Sen. Vittorio Polacco a Lungotevere Sanzio. Contemporaneamente, in via Montebello (la zona alta di Roma)furono aperte nel pomeriggio le classi elementari per i bambini ebrei. I miei figli frequentarono tutte le varie scuole a seconda della loro età.
Nell’estate 1941 andammo nell’Alto Adige (Avelengo) e poi a Castel Gandolfo, dove la mia suocera aveva una villa. Nell’inverno 1941 ritornammo a Roma per far continuare ai bambini le scuole. A Natale 1941 eravamo in Val Gardena (Dolomiti). Mia figlia Mirella frequentava allora la scuola con l’internato a Merano (Istituto Maria Cristina Auer) ed il ragazzo più grande, Giorgio , fu piazzato in un Collegio dei Valdesi a Torre Pellice vicino a Torino. Voglio rilevare che in quella zona (Piemonte) vivono tuttora i Valdesi che appartengono ad una setta fondata da un certo Valdo, precursore di Martin Luther. Recentemente è morto uno scrittore valdese, Pierre Jayer. La loro ideologia è basata su principi molto larghi e liberali. In genere sono contrari alla conversione.
Nell’estate 1942 le operazioni di guerra si avvicinavano sempre più alla nostra zona. Nel periodo 1942-43 i tedeschi occuparono i Castelli Romani e le più belle ville a Castel Gandolfo, dove eravamo ben conosciuti. Tutti in quel posto sapevano che eravamo ebrei, tranne i tedeschi che, pur essendo stati i nostri vicini immediati, lo ignoravano. Siccome parlo tedesco, mi toccò più volte a fare da interprete per le autorità tedesche e per la popolazione, e dovetti affrontare delle situazioni scabrose. Nell’anno 1942 presi il diploma di inglese dell’Università di Cambridge, avendo fatto gli studi presso le suore inglesi a Roma. Ero iscritta a ADEI (Associazione delle Donne Ebree d’Italia) che era la Wizo
Il 25 luglio 1943 ebbe luogo lo sbarco degli Alleati a Salerno. Il 25 luglio 1943 avvenne la caduta di Mussolini e il gen. Badoglio a capo del Governo dichiarò che La guerra continua. Il periodo da tale data fino all’8 settembre 1943 fu pieno di incertezze e di tensione. L’8 settembre fu firmato dal governo italiano l’accordo di armistizio con gli Alleati, con il seguente proclama:
«Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, e nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Einsenhower [comandante] in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accolta».
Ci trovavamo allora a Castel Gandolfo. Le strade erano piene di soldati che abbandonavano le fila dell’esercito e travestiti in borghese cercavano di raggiungere le loro famiglie. Ritornammo a Roma. Io a piedi i bimbi su un carretto. Ci fermammo per pochi giorni in casa Sereni ed io cominciai a girare per i conventi in cerca di asilo. Mi feci accettare con mamma e i figli al Convento del Sacro Cuore del Bambin Gesù a Roma. Ciò avvenne il 30 settembre 1943. Le suore ci accettarono senza far difficoltà. Dissi alla madre superiora che ero ebrea, ed essa informò la gente del convento che eravamo degli sfollati dalla Sicilia (il che era plausibile dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia). Pagavamo una retta relativamente bassa, ed il trattamento, date le circostanze di allora era buono. Mia mamma ebbe una cameretta col bimbo di sei anni. Io stavo in un’altra cameretta con la figlia di 9 anni. Le due figlie maggiori erano in camerata. Il figlio Giorgio di 13 anni fu ospitato dal prof. Ernesto Bonaiuti (ex prete, scomunicato per le sue teorie filosofiche. Era ben conosciuto come scrittore e filosofo liberale. Mio padre, per l’intervento del papa Pio XII , che era stato il suo compagno per 8 anni di ginnasio e di liceo, fu accettato dalla Università Gregoriana, ex-territoriale.
Il convento dove ci rifugiammo aveva la scuola magistrale parificata sotto il nome Teresa Verzieri, in via Cavour. La nostra sistemazione andò abbastanza facilmente per il fatto che eravamo fra i primi che cercavano rifugio in un convento. In seguito il numero delle persone in cerca di un simile asilo, crebbe notevolmente.
Che impressione ha fatto tale cambiamento di vita e di ambiente su tutti? Particolarmente sui figli?
La figlia Mirella fu molto influenzata dall’ambiente cattolico. Le suore [erano] in genere persone con mente aperta, intelligenti e molte fra di loro erano anche molto colte. Gli altri bimbi erano troppo piccoli per comprendere le cose a fondo e presero il cambiamento di vita come una necessità causata dalla guerra. Il figlio maggiore Giorgio, dopo un certo soggiorno dal prof. Bonaiuti, fu tolto di lì e messo nel collegio dei preti Cristo Re e studiava regolarmente.
Qual è stata l’influenza di tale ambiente su Giorgio?
Era di carattere chiuso. Evidentemente soffrì più degli altri figli, trovandosi lontano dalla famiglia e quindi più sacrificato. In quel periodo era piuttosto svogliato anche negli studi. Si sentiva isolato e per giunta era anche più esposto ai pericoli dei bombardamenti. Il collegio si trovava vicino all’aeroporto del Littorio e i bombardamenti degli Alleati si facevano sentire in quel quartiere più che altrove. Fece un anno scolastico scarso, essendo stato levato di lì nel mese di aprile 1944 e portato in un’altra parte di Roma da nostri amici cattolici. Rimase da loro fino alla liberazione di Roma da parte degli Alleati. Io con gli altri figli rimasi nel convento fin dopo la liberazione di Roma avvenuta il 4 giugno 1944. Durante tale periodo le nostre carte furono cambiate con documenti legali, pur fittizi dal lato nomi. [...]
Vorrei menzionare che i due grandi bombardamenti di Roma avvennero il 19 luglio 1943 ed il 13 agosto 1943, nelle quali date furono bombardati la Chiesa di San Lorenzo e il cimitero. Dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia il 10 luglio1943, le persecuzioni dei tedeschi e dei fascisti diventarono ancora più crudeli. All’alba del 16 ottobre 1943, per ordine del comando tedesco, aiutato dalla milizia fascista fu circondato il ghetto di Roma e furono visitate le case degli ebrei negli altri quartieri di Roma. Molti ebrei che i nazi-fascisti riuscirono ad acciuffare sul posto furono portati via e finirono la loro vita nei campi di sterminio. Ci furono allora numerosissimi casi commoventi, quando vicini di casa ariani, riuscirono a salvare tempestivamente in vari modi, i loro vicini ebrei o quei membri delle loro famiglie che riuscirono ad avvertire e a nascondere. Dopo il 16 ottobre 1943 ci furono varie retate nelle strade effettuate dai nazi-fascisti, a caccia degli ebrei come pure di ex-militari italiani che si rifiutarono di servire i tedeschi. In quel periodo tutti conventi e molti privati aprirono le loro porte per salvare i perseguitati. Anche nel nostro convento i corridoi erano pieni zeppi di profughi.
Negli anni tra l’inverno 1943 e il 1944, avevo fatto due corsi di pronto soccorso sotto falso nome; un corso come assistente sociale, l’altro più fondamentale e presi i relativi diplomi. La pratica l’ho fatta nei mesi di aprile e maggio 1944 nell’Ospedale di S. Giovanni, durante i bombardamenti dei dintorni di Roma.
Nel periodo nel quale i tedeschi e le camicie nere entravano in alcuni conventi, sebbene extra-territoriali, portando via gli ebrei rifugiati lì, come pure i militari italiani, le suore si offrirono in certe contingenze a darci i loro vestiti; io però mi allontanavo quando lo richiedeva la situazione, per qualche sera portandomi dietro il bambino piccolo (circonciso e quindi in pericolo).
Ci nascondevamo in un appartamento abbandonato, al buio per non farci notare. In quel periodo le persecuzioni si acuirono di molto, specie dopo l’incidente in via Rasella (nel mese di marzo 1944 furono uccisi 33 tedeschi) che causò una rappresaglia atroce: il massacro di 335 persone prese a caso, fra cui c’erano molti ebrei ed anche alcuni nostri parenti. Tale massacro fu descritto nel libro Le Fosse Ardeatine da mio padre il fu professor Attilio Ascarelli.
Le perdite fra i nostri parenti furono notevoli. Tre mie zie che andarono in Toscana con le loro famiglie, furono denunciate e tutti furono deportati ad Auschwitz. Un’altra mia zia dalla parte di mia mamma, insieme a due figli, furono presi dai tedeschi. Essa fu deportata in un campo di sterminio e i due figli perirono nell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Voglio ancora rilevare che lo sbarco ad Anzio (Roma) ebbe luogo il 22 gennaio 1944 e i mesi dal gennaio al 4 giugno 1944 - data della liberazione di Roma - erano pieni di tensione, di ansia e di panico indescrivibile per le operazioni lente degli alleati.
Potrebbe dire il numero di ebrei deportati da Roma?
Secondo i dati statistici a me noti, furono deportati circa 10.000 ebrei fra l’Italia e Rodi.
Dopo la liberazione di Roma, rimasi ancora per un po’ di tempo nel convento. La nostra casa era occupata da una famiglia di fascisti, e quando ritornammo a casa della famiglia Sereni, dovemmo coabitare con loro. Ciò era molto duro perché uno di loro si comportava con prepotenza e ci minacciava fino a tal punto che fummo costretti a cercare l’intervento di un nostro vicino di casa. In quell’epoca sapemmo che erano arrivati i soldati della Brigata Palestinese e combinai subito per andare alla Hakhshara Harishonim
Il 25 marzo 1945 mio marito arrivò in Palestina direttamente da Asmara e ci raggiunse a Givat Brenner, dove i miei 5 figli furono accettati dall’Aliyat Hangar. Io dopo essere stata ospitata dalla mia cugina Rocas, andai a lavorare presso gli inglesi dimorando nel Kibbutz Givat Brenner. Mio marito si mise a lavorare nella fabbrica di marmellate di Givat Brenner. Dopo qualche mese tornò a Roma per rivedere i genitori e sistemare gli affari più o meno sospesi per la guerra.
- WIZO: Women’s International Zionist Organitation.
- Manca una riga.
- Luogo di raccolta dei profughi in partenza per Israele durante il periodo dell’emigrazione illegale in Palestina. Cfr. Ada Sereni, Clandestini del mare. L’emigrazione ebraica in Israele dal 1945 al 1948, Mursia, Milano 1994.
- Con questo termine si indicava l’emigrazione in Palestina. Aliah significa propriamente “salita” ed è un termine religioso che si riferisce in genere alla salita al tempio di Gerusalemme
Testimonianza di Gabriella Falco* (0.3/3163)
Mi chiamo Gabriella Falco, nata Ravenna. Nacqui il 3 maggio 1897 a Ferrara. Gli studi li ho fatti privatamente a casa, secondo il programma delle scuole medie, perché mio padre era contrario alle scuole miste (maschi e femmine assieme).
Studiai pure le lingue straniere, francese, tedesco e prendevo lezioni di pianoforte. Mi sposai con il prof. Mario Falco l’ 8 giugno 1922. Ho due figlie: Anna Marcella, sposata con l’ingegner Tedeschi, che ha due figli e sta a Milano.
Graziella invece sposata Danom ha tre bambini e abita a Ramat-Gan [in Israele].
Mio padre si chiamava Felice Ravenna e dimorava a Ferrara, mia madre Marcella-Celina Padoa fu deportata il primo dicembre 1943 da Firenze. Il 26 novembre si rifugiò con mia sorella maggiore Germana nel convento di Santa Maria del Carmine. La stessa notte le porte del convento furono abbattute dai militi fascisti e gli ebrei ivi rifugiati furono affidati alle suore. Dopo quattro giorni, il primo dicembre 1943 furono tutti mandati verso ignota destinazione.
Mio padre accompagnò Theodor Herzl a Roma, quando egli ebbe l’udienza dal re Vittorio Emanuele III, nel mese di gennaio 1904.
Herzl menziona mio padre nei suoi Tagebücher [Diari] per lo meno due volte. Le lettere di T. Herzl a mio padre sono conservate dalla famiglia e furono a suo tempo pubblicate.
Mio padre era presidente della Comunità Israelitica di Ferrara e in seguito diventò presidente di tutte le Comunità Israelitiche in Italia (Unione delle Comunità Israelitiche Italiane). Espletò tale carica fino alla sua morte che avvenne il 18 marzo 1937. Si espose notevolmente nella lotta contro gli esponenti della rivista «La nostra bandiera», che erano italiani di religione ebraica e di vedute fasciste.
Mio marito, oriundo di Torino, era professore di Diritto Ecclestiastico e Canonico all’Università di Parma (era una carica del tutto eccezionale per un ebreo). Alla fine del 1924, fin dalla fondazione dell’università di Milano, fu chiamato lì dove tenne tale cattedra fino al 1938, l’anno dell’introduzione in Italia delle leggi razziali. Il 2 settembre 1938 fu dimesso dall’Università di Milano come ebreo. Cominciò allora per noi un periodo tristissimo dal lato morale e anche materiale: La nostra situazione finanziaria diventò molto precaria. Mio marito fu aiutato dagli amici cattolici che cercavano di procurargli del lavoro. Fra questi amici si trovava il Professor Arturo Carlo Jemolo che era molto leale e devoto a mio marito. Fra i vari lavori avuti, mio marito si occupava nascostamente di una rivista e scriveva per la «Sacra Rota», senza però firmare i suoi scritti. Nel 1939 cominciò la dispersione della nostra famiglia. Mia sorella Valeria Grazia, di 17 anni più giovane di me, appena sposata partì per la Palestina nel settembre del 1939. Mio fratello, l’avvocato Enrico Ravenna, partì nel 1941 (settembre) con la moglie e i figli, dopo aver tentato di ottenere il certificato per la Palestina, che però arrivò troppo tardi, quando la guerra era già in corso. Ci tengo a ricordare che il giorno 21 settembre 1941 ebbe luogo una grande riunione di carattere antisemita a Ferrara, capeggiata da un noto fascista Asvero Granelli che lanciò apertamente minacce violente contro gli ebrei. La folla, aizzata dal suo discorso, si lanciò verso il tempio (di rito tedesco) e distrusse l’interno del tempio. Due anni dopo, la parte danneggiata fu riparata e con una cerimonia molto solenne, furono riportati nel tempio gli Sfarim.
Mi occupavo attivamente dell’opera dell’ADEI (Associazione Donne Ebree Italiane), che era la Wizo
Facevamo visite a domicilio, portando aiuti ai poveri. Funzionava pure un ufficio che cercava di sistemare i profughi.
Nel 1942 le ragazze ebree di Milano furono requisite per lavorare nelle fabbriche. Mia figlia Anna Marcella lavorava come scatolaia in una fabbrica di Sesto San Giovanni.
Nel mese di ottobre 1942 cominciarono i forti bombardamenti degli Alleati e la nostra casa a Milano fu notevolmente danneggiata. Per giunta, mio marito era malato e non poteva starci più. Decidemmo quindi di lasciare Milano. Siccome non volevamo lasciare dietro la nostra figlia che lavorava da scatolaia nei pressi di Milano, il nostro amico l’avvocato Francesco Carnelutti si espose ed intervenne presso le autorità competenti fasciste per farla liberare da tale lavoro. Grazie al suo intervento, nostra figlia fu esonerata dal suo impiego e partì assieme a noi per Ferrara nel novembre del 1942. Andammo ad abitare in casa di mia madre.
Intanto l’attività dell’ADEI (WIZO) continuava, sempre di nascosto. Ci si riuniva in una sala con il Rabbino, dott. Gustavo Castelbolognesi (la cui vedova con tre figli ed una figlia si trovava in Israele). Si cercava tanto di tenere accesa la fiammella di tale attività.
La signora Ada Ottolenghi di Milano, trasferitasi a Buenos Aires ci mandava del denaro molto regolarmente. Si tenevano le conferenze, però senza mandare inviti formali, ciò non doveva esistere. Gli inviti si passavano da una mano all’altra. Fin dal 1938 fu fondato un ginnasio ed un liceo ebraici, come pur una facoltà di chimica, mentre prima non esisteva che una scuola elementare ebraica. Se ne occupava il Comandante Federico Jarach, presidente della Comunità Israelitica di Milano e mio marito, vice-presidente della Comunità si occupò dell’organizzazione di tali scuole. Tanto è vero che le scuole medie ebraiche a Milano, portano ancora oggi il suo nome. I soldi affluivano in somme ingentissime, prevalentemente donate dal comm. Carlo Sciapita e dal signor Sally Mayer.
In quell’epoca il podestà di Ferrara aveva imposto rigorosamente che non esistesse nessuna istituzione di carattere ebraico sionistico, all’infuori della vera e propria Comunità, per cui l’ADEI avrebbe dovuto essere sciolta. Allora il gruppo delle signore che partecipavano a quell’attività, cominciò a lavorare clandestinamente. Non ci si telefonava né scriveva perché la posta e i telefoni erano sorvegliati. Mia sorella Germana (deportata poi insieme alla mamma) si offrì di servire da collegamento fra i membri dell’ADEI, andando in bicicletta di casa in casa per prendere i dovuti accordi sui nostri incontri.
Cominciando dall’8 settembre 1943, data dell’Armistizio, i tedeschi invasero l’Italia da padroni. Il 10 settembre 1943 tutti fuggimmo ad Alberone di Ro (a circa 16 chilometri da Ferrara) dove mia sorella aveva una piccola proprietà. Ci siamo rimasti fino al 4 ottobre 1943, quando mio marito si spense per un attacco cardiaco, all’età di 59 anni. Il 6 ottobre, cioè due giorni dopo, la salma fu portata a casa nostra a Ferrara e la sepoltura ebbe luogo il 7 ottobre 1943.
Mentre la salma era ancora in casa (i telefoni erano completamente bloccati e quindi non potevamo comunicare con i nostri parenti ed amici) i fascisti vennero a cercare alcuni membri della famiglia Ravenna, fra cui mio padre che era morto da sette anni; mio zio paterno, il prof. Ferruccio Ravenna che fortunatamente riuscì a scappare in campagna e più tardi in Svizzera. Cercarono pure l mio altro zio, Ausonio Ravenna che fu però rilasciato per il coraggio della figlia. Nella stessa dolorosa occasione fu preso il mio cugino Eugenio Ravenna che fu deportato senza fare ritorno.
L’8 ottobre 1943 alla vigilia di Yom Kippur, fuggimmo di nuovo ad Alberone di Ro. In quel periodo, dopo aver scritto a varie persone e non orientandoci sufficientemente nella situazione, aspettavamo con ansia i nostri parenti ed amici, ma nessuno si fece vivo. Era un momento in cui tutti cercavano di scappare per salvare la pelle e non potevano occuparsi delle sorti degli altri. Per fortuna ricevemmo allora tre lettere mandate per espresso dal prof. Jemolo, celebre giurista, professore di diritto ecclesiastico-canonico all’Università di Roma (cattolico, antifascista ed ottimo nostro amico) che ci invitava a ripararci in casa sua a Roma. Non avendo nessun’altra via d’uscita, ed essendo tutte donne sole, abbandonate al nostro destino, prendemmo subito la decisione di andare a Roma. La mamma e mia sorella Germana rimasero a Ferrara, ancora incerte sul da farsi. La notte del 18-19 ottobre 1943, alle due dopo mezzanotte partimmo per Roma (mia figlia maggiore Anna Marcella aveva 20 anni e l’altra Graziella 14 anni). Viaggiammo sotto bombardamenti, accompagnate da un nostro conoscente ebreo, il signor Sinigaglia, che doveva poi ritornare e riportare nostre notizie a Ferrara. Mentre eravamo in treno, abbiamo appreso, per puro caso, da una conversazione fra un sottufficiale della milizia fascista ed una popolana romana, che viaggiavano nel nostro scompartimento, che il 16 ottobre, cioè tre giorni prima, in una razzia su vasta scala, furono portati via migliaia di ebrei dal cosiddetto Ghetto, quartiere a Roma abitato principalmente da ebrei.
Sentendo questo, distrussi tutti gli scritti e ricordi ebraici rimasti da mio marito che portavo con me, e li buttai fuori dal finestrino.
Arrivammo a Roma il 20 ottobre alle 6 del mattino ed apprendemmo che i tedeschi e i militi fascisti controllavano all’uscita le carte d’identità. Non sapendo che fare, andammo nel ristorante della stazione per aspettare un’ora decente per poter telefonare al prof. Jemolo. Però nessuno ci rispose da casa sua. Per fortuna potemmo uscire dal ristorante senza essere state fermate, mentre ogni controllo delle nostre carte d’identità autentiche con le quali viaggiammo, avrebbe potuto essere fatale.
Decidemmo di recarci in casa del Professor Jemolo in via Paulucci de’Calboli, ma lì abbiamo appreso che la signora Jemolo era in campagna con la bambina piccola e che il marito e i figli più grandi andavano su e giù. Eravamo disperate, completamente disorientate sul da farsi. Mi ricordai allora che avevo una cugina sposata con un cattolico e che speravamo trovare in casa, non disturbata [sic]. Andammo quindi da lei e ci venne incontro il marito, colonnello Guidetti, che ci consigliò di ritornare a Ferrara. Disperate, tentammo ancora una volta di telefonare al Professor Jemolo che per la nostra fortuna si trovava allora in ufficio. Venne immediatamente in taxi in casa di mia cugina, accompagnato dalla figlia Adele-Maria di 18 anni. Avemmo un’accoglienza molto calorosa e commovente da parte del professor Jemolo. Padre e figlia decisero di riaprire la loro casa per accoglierci immediatamente. La figlia era studentessa di medicina all’Università di Roma e collaborava attivamente nel movimento della resistenza. Essa si offrì di occuparsi del ménage, e noi tre saremmo rimaste in casa a finestre chiuse. Ci fu dato l’ordine di non aprire la porta a nessuno, se non alle suonate convenzionali. Dopo alcuni giorni venne a salutarci il nostro amico Raffaele Cantoni, e ci portò notizie della mamma e di mia sorella Germana che ci raccomandava vivamente di farci procurare subito le carte false. Grazie all’aiuto del prof. Jemolo e del prof. Ugo Papi che furono pronti a dare una testimonianza falsa per noi, ottenemmo le carte d’identità rilasciate dall’Ufficio Postale. Da quel giorno io mi chiamai Gabriella Fabbri-Resta e le mie figliuole Anna Maria e Grazia Fabbri.
Alla fine di novembre 1943 fu pubblicato un decreto-legge che ordinava a tutti gli ebrei italiani di raccogliersi nei campi di concentramento assegnati. Allora il prof. Jemolo che già era sorvegliato come antifascista ritenne prudente che tutti noi ci trasferissimo ad Ariccia, che si trovava nella campagna romana, vicino ad Albano e dove dimorava già da tempo la moglie del prof. Jemolo con la bambina di 4 anni. La loro villa era requisita da soldati ed ufficiali tedeschi e non rimasero che due camere e la cucina a disposizione della famiglia Jemolo. Così ci ammassammo tutti ad Ariccia in quelle due camere. I tedeschi occupavano il resto della casa e per forza di cose, fummo in contatto continuo con loro. Essendo stata io l’unica che conosceva il tedesco, fui spesso chiamata come interprete.
Fra l’altro, conoscemmo un tenente tedesco, il dottor Rosen, che cercava di stringere amicizia con noi.
Dopo lo sbarco ad Anzio (gennaio 1944) il prof. Jemolo previde che le battaglie si sarebbero svolte nei pressi della loro villa e volle evitare a tutti i costi che le ragazze si trovassero in mezzo al furore delle battaglie. Prese quindi la decisione di ritornare con noi e famiglia a Roma. Mentre stavamo ad Ariccia ottenemmo con l’intervento del professor Jemolo, dal parroco Don Marinelli, amico del Senatore Volterra, ebreo, che era un moto matematico, di farci fare le carte annonarie indispensabili per acquistare le razioni di pane, di zucchero ecc., senza le quali non si poteva avere nulla. Dietro la garanzia personale del prete, il segretario comunale ci rilasciò le suddette carte. Voglio menzionare che il parroco sapeva che eravamo ebree e disse che era pronto a mentire perché il Santo Padre voleva che i preti aiutassero gli ebrei.
Nel gennaio 1944 il professor Jemolo andò a Castelgandolfo, la residenza estiva del Papa Pio XII per ottenere che gli si mettesse a disposizione un camion per il trasporto di noi tutti e di tutte le nostre cose. Egli si rendeva conto che tutto ciò che fosse rimasto alla villa di Ariccia, sarebbe stato perduto. Ci incitò quindi a raccogliere il più possibile. Il camion sarebbe partito da Castelgandolfo prima dell’alba, inquantocché i bombardamenti cominciavano sempre all’alba.
Avremmo dovuto fare a piedi oltre 4 km per giungere Albano, dove avremmo trovato il camion. Ma poiché non si poteva circolare di notte senza la parola d’ordine per i tedeschi, ci rivolgemmo all’ufficiale tedesco Rosen perché ci accompagnasse fino ad Albano, [cosa] che egli fece volentieri. Arrivammo davanti al Quartiere Generale tedesco che era ancora notte ed aspettammo il camion che non arrivava. Andai allora ad interrogare la sentinella tedesca e mentre gli parlavo giunse un ufficiale tedesco dall’aspetto duro che mi parlò bruscamente. Gli raccontai tutto, ma egli disse di non sapere nulla del camion che doveva venire da Castelgandolfo. Accortosi che parlavo bene tedesco, si mise a mia disposizione e fermò un camion carico di profughi che scendeva da Castelgandolfo; li fece scendere ed ordinò ai suoi soldati di caricare la nostra roba e noi stessi. Il giorno dopo Albano fu distrutta da un terribile bombardamento.
Arrivammo a Roma sani e salvi e subito dopo, la mia figlia maggiore Anna Marcella mi disse che voleva fare qualcosa per la liberazione, cioè collaborare col movimento della Resistenza e di doverlo fare anche per la memoria del papà che era un antifascista accanito. La lasciai fare quello che le dettava la coscienza. Siccome in seguito un loro compagno fu preso dai nazifascisti e pareva avesse fatto qualche nome, il figlio del professor Jemolo e mia figlia dormirono per un po’ di tempo fuori, da vari amici sicuri. Il lavoro di mia figlia era di collegamento fra i conventi e le case private. Intanto la figlia più piccola, Graziella, studiava da sola per prepararsi agli esami di licenza. Si presentò all’esame col nome falso e fu promossa.
Vorrei ricordare un episodio successo in casa Jemolo a Roma. Un giorno il professor Jemolo trovò nell’anticamera, un grossissimo pacco di un giornale clandestino «La Voce Operaia», che non si sapeva da dove provenisse. La domestica interrogata ci disse che una signorina a lei sconosciuta aveva chiesto di lasciare il pacco in casa loro. Terrorizzati dal pericolo che correvamo bruciammo giornale per giornale, chiusi in cucina, dentro una catinella. Durante il nostro soggiorno a Roma, noi come tutti, avemmo un’enorme penuria di cibo.
Il giorno 4 giugno 1944 alla sera si sparse la voce che gli Alleati erano alle porte di Roma. La mattina dopo avemmo la conferma ed uscimmo. Fu uno spettacolo indimenticabile. Eravamo finalmente libere. Ricordo che in una strada di Roma ci siamo fermati intorno ad un camion pieno di soldati americani. La mia figliuola Graziella aveva fatto uscire dalla fodera del soprabito, dove la teneva nascosta, una spilla d’oro con Magen David e l’aveva appuntata su un risvolto. Si avanzò un soldato americano, bruno, dall’aspetto simpatico e puntando il dito verso la spilla chiese : «Are you Jewish?» E noi potemmo finalmente dire «Yes». Allora si iniziò una conversazione in un misto di tedesco ed inglese. Ad un tratto si sentì il bombardamento dei tedeschi che erano ancora alle porte di Roma. Tutta la folla cercò un riparo; i soldati americani ebbero l’ordine di risalire sui loro camion e il soldato ebreo, alzandosi in piedi e con il braccio alzato, si allontanò salutandoci con voce altissima: «Shalom aleichem!». Credo che sia stato il momento più bello e il più grande della mia vita.
Ci fermammo a Roma, sempre in casa del professor Jemolo, fino alla liberazione dell’Italia settentrionale (28 aprile 1945) ed anche dopo. La mia figlia maggiore lavorava di notte all’ANSA (Agenzia Notizie Stampa) e ritornava a casa la notte, accompagnata dalla scorta armata, tanto era pericoloso circolare per le strade di Roma.
Il 20 giugno 1945 ritornammo a Milano, dove trovammo la nostra casa invasa da profughi e con fatica riuscimmo a trovare un posticino per noi.
Poi riuscimmo ad andare a Ferrara, dove con angoscia, trovai la mia casa paterna.
Durante il periodo delle persecuzioni avevo lungamente meditato sull’eventualità di andare a stabilirci in Eretz-Israel. Eppoi, appena liberate, facemmo i dovuti preparativi e partimmo con la prima Aliah dall’Italia settentrionale, il 21 ottobre 1945. Viaggiammo 20 giorni ed arrivammo a Ramat-Gan il 9 novembre, dove abitava da lungo [tempo] mia sorella Valeria-Grazia, sposata Padovano, che lasciò l’Italia nel 1939.
* Gabriella Falco, casalinga. Testimonianza rilasciata in data ignota. In relazione alle vicende della famiglia Ravenna, ricordate tangenzialmente nella memoria qui pubblicata, cfr. il volume di Paolo Ravenna, La famiglia Ravenna. 1943-1945, Corbo Editore, Ferrara 2001. Un’altra rievocazione di quanto qui narrato si trova nell’articolo della figlia di Gabriella, Anna Marcella, Ebrei e cattolici. Il giardino dell’amicizia, «Corriere della Sera» giovedì 14 ottobre 1993, p. 33.
- Naturalmente si tratta del campo di sterminio.
- Theodor Herzl (Budapest 1860 - Edlach, Bassa Austria 1904) fondatore del movimento sionista le cui tesi espresse nell’opera Lo stato ebraico (1898) in cui per la prima volta si teorizzava la necessità di costruire uno stato ebraico. Herzl è anche autore di alcuni drammi, commedie ed altri scritti letterari, tra cui si segnalano i postumi Diari (1922-23) apparsi in tre volumi.
- Women’s International Zionist Organisation.
Testimonianza di Emilio Foa* (0.3/3426)
Sono nato a Rivarolo Mantovano (provincia di Mantova) il 29 agosto 1926. Mio padre si chiamava Anselmo ed è morto nel campo di Auschwitz, mia madre Adele Milla. Sono l’unico figlio maschio, ho una sorella sposata e che vive a Roma. Sono impiegato presso il Ministero di Grazia e Giustizia a Roma. Mi sono laureato in Economia e commercio all’Università di Roma.
Tutti noi in famiglia eravamo assimilati, però avevamo sempre la coscienza ebraica. Il nostro ambiente era misto, prevalentemente cattolico.
Nel 1938 entrarono in vigore in Italia le leggi razziali, ma la vita degli ebrei continuava piuttosto tranquilla, senza maggiori scosse né ostilità da parte della popolazione, salvo rare eccezioni.
Mio papà era agricoltore in un terreno di sua proprietà a Casale Monferrato (Piemonte) ed ha potuto continuare la sua attività fino al dicembre 1943, quando venne promulgata la Legge che prevedeva l’arresto di tutti gli ebrei. Tale drastico cambiamento ebbe luogo in seguito alla vera e propria occupazione tedesca, avvenuta dopo l’8 settembre 1943 (caduta di Mussolini).
Fin dal 1938 non potei più frequentare la scuola pubblica, ma studiavo privatamente e potevo sostenere regolarmente gli esami da esterno. I miei studi furono ripresi intensamente dopo la guerra, quando sono riuscito a fare il programma di cinque anni in due per ricuperare il tempo perduto, dopo di che, ottenuto il diploma di scuola di secondo grado, mi iscrissi all’Università di Roma per giungere poi alla laurea di cui sopra.
Il 15 gennaio 1944 mi rifugiai a Rivarolo Mantovano ed ero in attesa di entrare con mio padre (allora di 52 anni) far le Brigate Partigiane operanti nella provincia dell’Emilia, però, per una spiata, fui arrestato con mio padre e con il mio zio materno Aldo Milla e fummo internati nel Ricovero Israelitico per i Vecchi di Mantova.
Mia madre e mia sorella, avvertite da persone amiche del nostro arresto, riuscirono a scappare e a nascondersi con l’aiuto della popolazione locale.
Restammo relativamente bene nel ricovero di Mantova fino al 5 aprile 1944, data in cui fummo deportati tutti e tre a Birkenau. Mio padre fu immediatamente selezionato per le camere a gas. La stessa sorte subì mio zio che, pur incluso nei pochi ritenuti abili al lavoro, manifestò disturbi vari per cui fu ricondotto a Birkenau e seppi successivamente che colà fu eliminato il giorno stesso dell’arrivo.
Io restai ad Auschwitz e, dopo la quarantena fui adibito al Commando Bauhof (costruzioni). Avevo allora circa 18 anni. Fui trasportato fra gli ultimi, nel mese di gennaio 1945, (circa il 16 gennaio), all’avvicinarsi dei Russi. Dopo una tremenda, faticosissima ritirata, durante la quale c’erano tanti morti massacrati per la spossatezza. […]
Dopo circa due settimane di permanenza, senza lavorare, in condizioni pietosissime (per il complesso delle vicende passate ad Auschwitz, per la penosissima ritirata e per il soggiorno a Mauthausen, il nostro fisico stava evidentemente debilitandosi), fummo destinati a Melk. Passato circa un mese fui rimandato a Mauthausen. Infine mentre da tutte le parti si avvicinavano le truppe degli alleati, ci trasferirono nel bosco di Wels, un sito aperto, lasciandoci praticamente senza vitto e senza acqua. Io e tanti altri fummo colpiti dal tifo petecchiale che io ignoravo di avere, pur trascinandomi con sforzi indescrivibili.
Dopo 15-20 giorni, il 6 maggio 1945, quando ormai stavo agli estremi delle mie forze, fui liberato dagli Americani e portato all’ospedale di Linz (Austria).
Rimasi in cura nel suddetto ospedale circa 20 giorni ed è allora che mi dissero che avevo superato il tifo petecchiale.
Malgrado lo stato del più acuto esaurimento (pesavo allora 34 chili, ora ne peso 65), per fortuna non erano stati lesi gli organi vitali del mio fisico.
Rientrato a fine giugno 1945 in Italia, mi riunii alla mamma e alla sorella, ed in pochi mesi mi ristabilii pressoché completamente. Certamente deve aver contribuito alla mia salvezza il fatto di essere stato allora un giovane sano, e moralmente mi aveva giovato la mia profonda convinzione che la guerra sarebbe finita presto, con la disfatta dei nazi-fascisti.
Sono venuto con grande gioia a visitare Israele, in occasione del congresso dei Deportati, Resistenti e Combattenti Ebrei e mi riprometto di ritornarci appena posso.
Al campo di Auschwitz il numero tatuato sul mio braccio fu 180041. A Mauthausen portavo al polso un cartello con il numero 116699.
P. S. Ricordo con particolare commozione un caro compagno di prigionia, ebreo polacco il cui nome era Beniek. Essendo più esperto e conoscendo la lingua, mi era di gran sostegno in parecchie circostanze. Purtroppo non so se sia rimasto in vita o meno.
* Emilio Foa, impiegato presso il Ministero di Grazia e Giustizia a Roma. Testimonianza resa il 1 marzo 1970.
- Riga mancante.
Testimonianza di Raffaele Jona* (0.3/3425)
Sono nato nel 1905 a Ivrea. Mio pare si chiamava Gioberti Jona e mia madre Itala Levi. Mi sono laureato in ingegneria al Politecnico di Torino. Dopo aver conseguito la laurea in ingegneria meccanica presso il Politecnico di Torino, mi sono occupato di una impresa di Torino per il recupero di metalli non ferrosi che era di mia proprietà.
Nel 1938 essendo entrate in vigore in Italia le leggi razziali, ho ceduto la mia ditta rimanendone però impiegato in qualità di dirigente.
Tale mia attività si protrasse fino all’8 settembre 1943, data dell’Armistizio dell’Italia verso gli alleati.
Alla notizia dell’avvenuto armistizio, che sembrava assumere in un primo tempo il carattere di pura rivolta delle armi contro la Germania e i nazisti, insieme all’amico Cesare Artom, mi sono presentato al Distretto Militare di Torino chiedendo di essere arruolato volontario. Le autorità militari da noi interpellate, hanno però risposto di non poter arruolare nuovi uomini, anche quali volontari, motivando la loro determinazione in forza dell’entrata in vigore dell’Armistizio e conseguente cessazione della guerra.
Con l’amico Artom ed alcuni altri, anche non ebrei (si calcola che il numero di ebrei che in Italia presero parte al Movimento di Resistenza, sia stato inferiore ai 1000, ma probabilmente prossimo ai 2000 e quindi un numero assai elevato se si tiene conto che la popolazione ebraica in Italia a quel tempo ammontava circa 30˙000 persone) ci siamo installati in località Troinassé all’imboccatura della Valle D’Aosta, adoperandoci nello smistamento di numerosi prigionieri di guerra che, provenendo da disciolti campi di concentramento in Piemonte e Lombardia, cercavano di valicare la prossima frontiera italo-svizzera. L’opera fu facilitata dall’aiuto prestatoci da un maresciallo dei carabinieri comandante della stazione di Issime e dai suoi uomini.
Per circa due mesi, il mio gruppo assolse il compito di raccogliere e guidare questi militari alleati attraverso le montagne facendoli affluire in Svizzera dopodiché dovemmo constatare due fatti importanti:
- che stavamo per essere circondati dai tedeschi;
- che il nostro lavoro, ormai esaurito, si era svolto in condizioni di isolamento, mentre nei centri più importanti si stava organizzando la Resistenza e si stavano costituendo i Comitati di Liberazione Nazionale.
Abbiamo quindi deciso di abbandonare Troinassè affluendo a Torino e mettendoci a disposizione del C. L. N.
Da Torino il C. L N. ci destinò in Val di Lanzo e, precisamente, in Località Viù. Abbiamo così potuto costituire delle bande di partigiani di circa 25 uomini cadauna, raccogliendo per essi un limitato, ma sufficiente, numero di armi e munizioni.
In quel tempo hanno cominciato a manifestarsi le correnti politiche tra i partecipanti alla Resistenza. La mia banda come pure quella di Cesare Artom, prevalentemente formate di studenti universitari, si collocò nel gruppo politico di Giustizia e Libertà aderente al Partito d’azione, mentre il Partito Comunista assumeva una forte prevalenza di uomini raccolti sotto gruppi di partigiani Garibaldini.
La pressione dei Comunisti, che talvolta diventava aperta rivalità verso gli altri partiti, indusse Duccio Galimberti (famoso capo partigiano, rappresentante del Partito d’Azione nel C. N. L. di Torino, più tardi arrestato, torturato ed assassinato dai nazifascisti) ad utilizzarmi in altra zona e, precisamente, in Valle d’Aosta dove alla Resistenza erano affluiti uomini nativi della stessa valle, ma che tendevano a rimanere in alta montagna e con poca utilità alla lotta di liberazione.
Il mio incarico era difatti quello di coordinare meglio l’impiego di quegli uomini e di inserire tra di essi uomini provenienti dal di fuori della Valle d’Aosta, già più assuefatti alle operazioni di guerra partigiana.
Mi furono perciò assegnati uomini provenienti dalla Valle di Lanzo scelti, in buona parte, tra quelli da me conosciuti. Non passò molto tempo che i fatti di guerra si intensificarono pure in valle d’Aosta. Tuttavia era assai grave la nostra scarsità di armi e munizioni.
Ebbi però allora il colpo di fortuna di incontrare un vecchio conoscente (ebreo pure lui), il Dott. Giulio Colombo di Torino che aveva organizzato una attività di collegamento tra la Resistenza in Piemonte e le autorità alleate in Svizzera, particolarmente al servizio del capo dei servizi segreti americani impersonato da Allan Dulles (fratello di Foster Dulles).
Giulio Colombo mi consentì di utilizzare le sue credenziali presso le autorità di polizia in Svizzera e potei così avvicinare Allan Dulles, ed ottenere da lui l’invio di armi, munizioni e rifornimenti a mezzo di lanci paracadutati da aerei verso la Valle d’Aosta.
La missione fu apprezzata dal C. L. N. di Torino che, da quel momento mi incaricò di assumere il collegamento del C. L. N. piemontese con gli alleati in Svizzera e, attraverso l’Ambasciata d’Italia a Berna, collegare anche il C. L. N. di Torino con il Governo Provvisorio Italiano in Italia Meridionale. Per volgere questo compito ho portato a termine 14 viaggi clandestini tra l’Italia e la Svizzera, viaggi effettuati in gran parte a piedi attraverso i valichi alpini più disparati e, praticamente toccanti tutto il confine italo-svizzero all’infuori dei valichi ufficialmente riconosciuti e controllati.
Nel corso di uno di questi viaggi ho fatto parte della prima missione della Resistenza italiana che abbia preso contatto col Maquis francese.
Tale missione che si recò appositamente nell’estate 1944 in Alta Savoia era formata da Enrico Marone Cinzano (titolare della famosa ditta Cinzano) e da Stefano Jacini (poi ministro della Guerra nel governo dell’Italia liberata) oltre che da me medesimo.
L’accordo con il Maquis francese non fu molto facile e la missione non ha potuto vantare un grande successo.
Nel frattempo, in Valle d’Aosta, per ben due volte il C. L. N. locale si formò e fu distrutto dai nazifascismi che arrestarono e deportarono e in parte assassinarono coloro che facevano parte del C. L. N. Famoso particolarmente fu tra gli scomparsi il notaio Emilio Chanoux allora Presidente del C. L. N. di Aosta. Dopodiché non fu più possibile mettere in piedi un ulteriore C. L. N. con rappresentanti di varie correnti politiche.
Allora il C. L. N. di Torino mi incaricò di assumere il compito di suo Commissario Generale per la Valle d’Aosta proprio nel momento in cui si diffondeva con notevole favore un movimento politico per l’annessione della Valle d’Aosta alla Francia, movimento a cui pare non fosse estraneo o stesso Generale De Grulle. Con non poca fatica ho dato qualche contributo a porre in minoranza questa iniziativa.
Sul finire del 1944, dovendo continuare il mio servizio di collegamento Italia-Svizzera, ed essendo i valichi alpini della Valle d’Aosta ormai chiusi per le insormontabili difficoltà invernali, spostai il mio servizio più ad oriente utilizzando i valichi del Canton Ticino e quelli della Valtellina.
Nel frattempo il Joint Distribution Committee
Riuscii a creare una rete di individui di appoggio per la distribuzione e a realizzare soddisfacentissimi cambi di franchi svizzeri in lire italiane.
Questo è, in breve riassunto, la sostanza della partecipazione alla Resistenza in Italia di cui si trova pure qualche cenno nel volume scritto da Edi Consolo intitolato Glass and cross attraverso le Alpi.
A guerra finita ho ripreso la mia attività di direzione di aziende industriali, attività in cui sono tuttora impegnato.
Tutti i membri della mia famiglia sono riamasti in vita nel corso della guerra: mia madre nascosta presso Ivrea ed i miei fratelli con relative famiglie emigrati in America.
Mio padre morì di febbre “spagnola” nel 1918.
* Raffaele Jona, ingegnere di Torino. Testimonianza resa l’11 marzo 1970.
Testimonianza di Wanda Padovano* (0.3/3166)
Sono nata a Bologna il 7 settembre 1896, figlia di Armando Yacov Padovano e di Ada Bemporad Padovano.
Due miei fratelli, Renato e Giorgio e mia sorella Laura dimorano negli Stati Uniti. Mio fratello Mario risiede in Israele. Ho frequentato tutte le scuole, dal giardino d’infanzia alla fine dell’Università a Firenze dove la mia famiglia si era trasferita pochi mesi dopo la mia nascita.
Appartengo ad una famiglia completamente ebrea, che viveva in Italia da moltissime generazioni. I miei nonni e i miei genitori avevano sempre partecipato con interesse alla vita culturale e patriottica italiana, perché mia madre era di una famiglia di editori ben nota - Bemporad - e mio padre che aveva frequentato l’Accademia militare di Torino, era stato ufficiale per molti anni e richiamato in servizio con incarichi di fiducia durante la prima guerra mondiale.
Durante i miei anni di studio nelle scuole pubbliche italiane io, che mi professavo sempre ben dichiaratamente ebrea, non ricordo di aver avuto in mezzo a compagni di altra religione, problemi speciali o trattamento diverso dagli altri. Lo studio mi era facile e piacevole, i risultati buoni; i rapporti con compagni e maestri in generale cordiali e simpatici.
A vent’anni ho conosciuto all’Università, nella facoltà di Lettere, un compagno di studi Giacomo Sinigaglia, ebreo entusiasta di tutti i problemi ebraici, già allora pieno di interesse per la rinascita dello Stato e della lingua d’Israele, ma studioso nello stesso tempo del mondo classico, greco e romano, della letteratura e dell’arte italiana e ci siamo amati con tutto l’ardore della nostra giovinezza. Allora l’ebraismo, che era per me un profondo sentimento religioso, si è trasformato in qualche cosa di diverso e vi si è aggiunto l’interesse per la terra d’Israele. L’uomo che amavo e con cui mi preparavo a trascorrere la vita, sentiva così fortemente l’attaccamento alla terra in cui vivevamo, come molti della nostra generazione, che non esitò a fare il suo dovere di ufficiale, affrontò il pericolo con mirabile coraggio e cadde combattendo nei giorni di Caporetto, a capo dei suoi soldati.
I pochi superstiti della sua compagnia parlarono e scrissero di lui con commossa ammirazione.
Non sono una donna eroica e non c’era niente al mondo, nessun riconoscimento che potesse compensarmi del sacrificio della sua e della mia vita, ma questo sacrificio di allora ha reso ancora più grave l’amarezza che ho provato per le leggi razziali emanate in Italia nel periodo 1938-1945 e particolarmente per la persecuzione del 1943-45.
Dopo aver ottenuto nel 1921 la laurea in Lettere nell’Università di Firenze (Filologia classica) e un diploma speciale di attitudine all’insegnamento del latino, presi parte a Roma a diversi concorsi generali e speciali ed ebbi una cattedra per l’insegnamento delle materie letterarie nei ginnasi italiani, prima a Bologna e, dopo un anno, a Firenze. Il mio insegnamento, che facevo con molta passione, mi dava soddisfazione. Al Ginnasio “Michelangelo” di Firenze dove insegnai per più di 13 anni, ero ricercata dagli allievi e dalle loro famiglie che mi stimavano e mi volevano bene. Nel 1932 il Ministero mi dette una promozione anticipata per meriti speciali.
Ma quando l’influenza tedesca iniziò a farsi sentire in Italia, nuovi problemi si presentavano alla coscienza di ogni ebreo. Tuttavia, continuai il lavoro fino al settembre 1938, quando con l’entrata in vigore delle leggi razziali, fui licenziata. Pochi giorni dopo che avevo ricevuto la lettera ufficiale di licenziamento, un mio ex-preside mi mandava una calda ed affettuosa lettera per confermarmi la sua amicizia e la sua solidarietà! Ma la realtà era quella che era!
Nella mia situazione, di essere esclusi dalle scuole pubbliche, si trovavano anche i ragazzi ebrei di Firenze e molti dei miei amici me li consegnarono immediatamente perché continuassero il ginnasio con me. Ma i gruppi divenivano ogni giorno più numerosi, ed io, che non potevo accoglierli tutti in casa mia, accettai con molto piacere l’invito della Comunità di Firenze che voleva me e miei allievi nella scuola media ebraica allora apertasi. Nelle gravissime difficoltà di quegli anni, delle quali soltanto chi lavorava là dentro poteva rendersi conto, riuscimmo sotto la guida di un esperto professore, il prof. Scaramella[1], a fare sì che i nostri allievi studiassero con profitto, si presentassero agli esami pubblici come la legge allora permetteva e non perdessero anni di scuola. I miei colleghi ed io ci dedicammo con ogni sforzo ad aiutarli perché la loro vita non fosse troppo diversa da quella degli altri ragazzi della loro età, ma non potevamo fare molto in quelle circostanze.
La situazione precipitò, divenne gravissima l’8 settembre 1943, quando l’armistizio fu proclamato e i tedeschi si diressero verso di noi. Un brivido di terrore mi scosse. Che cosa si preparava per gli Ebrei d’Italia? Forse io sola nella mia famiglia avevo un’idea chiara degli orrori nazisti. Ero già stata tre volte in Palestina, la prima, nel 1933, avevo visto con pietà i primi profughi dalla Germania, le altre due volte nel 1938 e nel 1939, venuta a vedere la famiglia Sinigaglia, a cui ero affettuosamente legata, avrei potuto ottenere il permesso di restare e come lo avrei voluto! Ma come potevo lasciare in Italia i genitori anziani in tempi tanto pericolosi? I miei fratelli erano per fortuna già partiti, due per l’America e uno era venuto a stabilirsi qui in Palestina. Mia sorella, che era in Inghilterra, tornò in quei giorni anche lei a Firenze ed affrontammo insieme la nostra sorte. Bene facemmo, anche se questo ci ha procurato un periodo di tante sofferenze. Mio padre e mia madre non si rendevano conto della gravità del pericolo. Abituati tutta la vita ad essere rispettati da Ebrei e non Ebrei, come potevano pensare che un vento di follia avrebbe invaso e sconvolto così la mente degli Italiani? Ma i tedeschi erano ormai a Firenze e si diceva che avessero già in mano le liste degli Ebrei. Non c’era tempo da perdere. Con molta energia ed un po’ di violenza obbligai mio padre e mia madre a lasciare la nostra casa, a loro tanto cara, e in ordine sparso ci recammo presso amici che abitavano dal lato opposto della città. Ma quella non poteva essere che una sistemazione provvisoria e il giorno seguente partimmo per un paesetto di campagna dove la popolazione ci conosceva e ci voleva bene. Prudenza o imprudenza? In quei tempi era difficile sapere se si indovinava la via giusta per sfuggire o no. Viaggio infernale: paura di essere riconosciuti, treni zeppi di militari che fuggivano da tutte le parti, proteste contro le donne che si mettevano in viaggio in quei giorni (come se lo facessero per piacere). Finalmente arrivammo a casa di amici fedeli e riprendemmo fiato un momento.
Ma presto fummo avvertiti che era meglio cambiare dimora e di notte altri buoni amici ci vennero a prendere e ci chiusero nella loro casa, facendo tutto il possibile perché nessuno dei vicini arrivasse a sospettare la nostra presenza.
Tuttavia il paese era piccolo e la possibilità di essere scoperti era grande. Gli abitanti avrebbero tutti saputo tacere? Ritornammo a Firenze e ci separammo. Per mio padre era molto difficile trovare una sistemazione. Sicuro di non avere niente da nascondere nella sua vita di uomo onesto, buono, cordiale parlava volentieri con tutti e gli sarebbe stato impossibile cambiare il suo nome e tanto meno usare una tessera falsa. Mi venne in aiuto il primario dell’ospedale, prof. Comolli, padre di un mio alunno che, dicendo di voler curare mio padre di alcuni disturbi, lo fece entrare nell’ospedale in una corsia comune, tra molti altri pazienti e lo curò, lo fece curare per molti mesi in modo mirabile. Mio padre purtroppo morì l’8 maggio 1944, ma in quel periodo ben pochi malati, anche non ebrei, poterono avere l’assistenza che il prof. Comolli diede a mio padre.
Mia madre ebbe l’ospitalità di amici di vecchia data che la tennero affettuosamente in casa loro, malgrado il pericolo che correvano e le gravissime minacce pubblicate ogni giorno sui giornali contro chi aiutava un ebreo.
Mia sorella ed io ci presentammo ad un convento della città. La superiora senza un attimo di esitazione ci accolse e ci aiutò, come già aiutava molti altri ebrei lì raccolti. Quando la ringraziammo, ci disse con molta semplicità che non faceva altro che seguire il suo cuore e le direttive avute dai suoi superiori. Nello stesso convento si trovavano nostre parenti ed amiche carissime, la moglie e la sorella del Rabbino Nathan Cassuto con i loro bambini.[2] Quando giunse la notizia che il giovane e coraggioso Rabbino era stato deportato, soffrimmo con loro. Sua moglie doveva poco dopo seguire la sua sorte e, miracolosamente salvatasi dai campi di concentramento, veniva più tardi in Israele a rivedere i suoi bambini e a morire tragicamente nel convoglio che andava all’Università.
Dopo la razzia nel Convento del Carmine a Firenze, in cui furono deportati dai nazisti e dai fascisti, più di 30 ebrei, la superiora ci chiamò e con emozione ci disse che per lo stesso spirito di carità con cui aveva accolti pochi giorni prima, doveva ora cercare di farci andar via: i tedeschi e i militi fascisti potevano arrivare da un momento all’altro. Ci fece scendere nei sotterranei della chiesa e cercò immediatamente di trovare una sistemazione fuori per i bambini più piccoli, (c’erano due neonati), poi fece uscire noi a pochi per volta negli intervalli fra un bombardamento e l’altro. In quel momento le bombe ci sembravano il meno grave dei due pericoli.
Mia sorella e io ci avviammo verso il Viale dei Colli, incerte su dove dirigerci. Finimmo per andare nella casa dove era la mamma, ma sapevamo che sarebbe stato imprudente restare lì in tre e pensammo di partire per Roma. Forse in un’altra città sarebbe stato più facile nasconderci perché non eravamo conosciute, forse lì gli alleati sarebbero presto arrivati….
Ma a Chiusi, a tre ore di viaggio da Firenze, il treno si fermò definitivamente ed in quel dicembre 1943 freddo e piovoso, restammo con altri viaggiatori a passare la notte in una casa diroccata dalle bombe. Alcune persone che erano lì afferrarono le porte e le finestre rimaste per accendere il fuoco. Era la prima volta che vedevo questa smania di gettarsi su tutto quello che si poteva trovare e mi fece effetto, ma poi ho visto cose ben peggiori: distruggere senza scopo e utilità.
[…][3]>. Trovammo finalmente alloggio in una brutta e povera casa di un quartiere popolarissimo del mercato. La padrona di casa, napoletana, aveva bisogno di denaro: ci chiese un prezzo alto, capì, ma non indagò, non volle nemmeno sapere il nostro nome e ci accolse come sfollate da un paese di campagna. Nei mesi che passammo lì avemmo molta paura, ma nessuno ci tradì e tirammo avanti alla meglio. Intanto per non so quale spiata, un giorno i fascisti erano andati a cercare mia madre. Per una fortunata combinazione, proprio in quel periodo avevo trovato anche un altro rifugio verso le Cascine, una parte diversa di Firenze e ce l’avevo mandata a passare qualche sera. Così i nostri amici poterono dimostrare che in casa loro non c’era nessuno, ma ancora una volta sentimmo che eravamo sempre sul filo del rasoio! E pensammo che era meglio far perdere le tracce. Altri conoscenti al Campo di Marte ospitarono allora nostra madre.
Alla fine del luglio 1944 i tedeschi fecero saltare i ponti sull’Arno. Nuovo terrore. Gli alleati erano alle porte e ben presto il centro di Firenze divenne un punto di lotta tra inglesi e tedeschi. Sui tetti delle case passeggiavano spaventati e minacciosi fascisti, antifascisti, giovani ed adulti invasi da terrori diversi. Mia sorella ed io raggiungemmo la nostra mamma. Ma proprio nei primi giorni di agosto fu ucciso un tedesco nelle vicinanze del Campo di Marte e per rappresaglia furono fatte saltare alcune case vicine a quella in cui abitavamo.
Ma si avvicinava il giorno della liberazione. In un sotterraneo con molti altri sentivamo il passo pesante delle truppe tedesche che uscivano dalla città. Avevamo il terrore delle ultime violenze e le mamme chiudevano a forza le bocche dei bimbi che piangevano, perché nessun suono tradisse la nostra presenza. E finalmente l’incubo finì. La città era rovinata, avevamo perduto tutto, eravamo senza acqua e con poco pane, ma eravamo ancora vivi. Quando, pochi giorni dopo, la brigata palestinese cominciò a percorrere la città distribuendo un po’ d’acqua, fu accolta con entusiasmo. Si incominciò ad imparare la parola Shalom. Un soldato ci portò perfino un pezzo di sapone ed un mezzo fiasco di caffè e di latte, che dividemmo con gioia con molte persone.
Ci vollero dei mesi prima di poter riprendere un po’ di vita, diciamo normale, ma dovevamo ricominciare dal nulla e tutti eravamo assai scossi. I problemi materiali e morali erano gravissimi. La nostra casa era stata distrutta dai bombardamenti, mobili e libri portati via da fascisti e nazisti, la famiglia dispersa in varie parti del mondo e mancava l’energia per riprendere la vita di prima. Io avrei potuto riavere il mio insegnamento, ma il mio entusiasmo era spento e mi mancava la forza. Mia madre e mia sorella volevano raggiungere i miei due fratelli che erano negli Stati Uniti e che già preparavano i documenti per chiamarle. Io potevo partire per la Palestina dove un altro fratello con la sua famiglia era stabilito. Mi aspettava, lo sapevo, una vita dura e difficile, ma volevo ritrovare me stessa e il mio equilibrio.
Mi è stata necessaria una grande forza di volontà per resistere e superare tanti ostacoli, ho dovuto fare molte rinunce, adattarmi in un’età avanzata ad una vita diversa da quella a cui ero stata abituata, ho sofferto di nuovo durante la guerra di indipendenza, ma ho visto nascere lo Stato d’Israele, ho visto crescere una gioventù ebraica coraggiosa robusta e libera (anche troppo nella vita quotidiana), ho visto sorgere villaggi, città, giardini e boschi in questa terra che nel 1933, nel mio primo viaggio avevo vista in gran parte coperta di sabbia. E sono contenta di essere venuta qui, dove ho ritrovato mio fratello, la sua famiglia ed una nuova generazione e molti amici carissimi di vecchia data. In parte con il loro aiuto, sono riuscita a continuare l’attività che mi piace: l’insegnamento dell’italiano in alcuni corsi e quello del latino agli studenti dell’Università di Tel Aviv, nella facoltà di legge. Ho cambiato la lingua di queste ultime lezioni, ma l’argomento è lo stesso.
Il ricordo del periodo delle persecuzioni non si potrà mai cancellare nella mia memoria né il dolore che un paese come l’Italia, simbolo per me della più alta civiltà, abbia accettato di legalizzare nei tempi moderni degli orrori che hanno superato i più terribili orrori dell’oscuro Medioevo. Non importa se il numero dei deportati e degli uccisi è stato inferiore a quello di altri paesi, perché gli Ebrei erano in Italia meno numerosi. Il fatto in sé rimane ugualmente grave.
Ma in questo tragico periodo della mia vita non ho perso la fede nell’umanità. Se ho conosciuto la crudeltà, l’egoismo, la viltà, ho potuto anche conoscere più di molti altri ai quali le cose andavano meglio, il valore dell’amicizia, della solidarietà umana, della generosità. Persone di ogni condizione sociale, d’ogni grado di cultura, d’idee differenti hanno affrontato per i miei e per me i rischi più gravi, hanno esposto al pericolo la via loro e - cosa più grave - la vita dei loro cari, ci hanno fornito viveri, privandosene loro stessi, ci hanno aiutato, insomma, in ogni modo, spesso anche dietro suggerimenti e consigli di ecclesiastici coraggiosi.
Ai nostri amici di quei duri tempi va il mio pensiero grato né dimenticherò quanto i miei scolari e le loro famiglie hanno cercato di fare per me anche dopo che lasciai la scuola pubblica.
Per merito loro il mio legame spirituale con l’Italia di oggi è tornato ad essere vivo e forte e desidero ricordare qui i nomi di alcuni di questi amici, nella speranza di vederli un giorno in visita in Israele a piantare un albero nel Viale dei Giusti:
- Dottor Mario e Mimi Macciani;
- Cesira Galeotti, compagna fedelissima della nostra famiglia;
- famiglia Gramigni;
- Francesca Comucci Milani;
- famiglia Damilano e tanti altri.
* Wanda Padovano, insegnante fiorentina. Testimonianza non datata.
- Promotore delle scuole ebraiche a Firenze dopo l’entrata in vigore in Italia della legislazione razziale (settembre 1938).
- Sulle vicende di Natham Cassuto e della sua famiglia cfr. il volume bilingue - in italiano e in ebraico - di Scritti in memoria di Nathan Cassuto, a cura di Daniel Carpi, Augusto Segre, Renzo Toaff e David M. Cassuto, Kedem - Yad Leyakkirenu, Gerusalemme 1986.
- Manca una riga nella quale, probabilmente, si ricorda il ritorno a Firenze.