Prima della Shoah, il paesaggio ebraico era costituito in gran parte da shtetl. Oggi, decenni dopo la loro distruzione, gli abitanti, le strade e gli edifici degli shtetl restano ancora impressi nella memoria collettiva degli ebrei. Il questo episodio di “On the Holocaust” (Sulla Shoah), il podcast dello Yad Vashem, il prof. Samuel Kassow ci accompagnerà nel mondo dello shtetl, spiegandocene le origini, la storia e le dinamiche interne.
Lo shtetl: tra mito e realtà – Traduzione in Italiano
Salve e benvenuti a quest’ultimo episodio di “On the Holocaust” (Sulla Shoah), il podcast dello Yad Vashem. Sono Dafna Dolinko, della International School of Holocaust Studies allo Yad Vashem.
Prima della Shoah, gran parte del paesaggio ebraico esteuropeo era costituito da shtetl. È di fatto impossibile discutere e immaginare secoli di vita ebraica in questa zona, e il tragico destino subito durante la Shoah, senza far riferimento allo shtetl e a chi vi abitava. Oggi, decenni dopo la loro distruzione, gli abitanti, le strade e gli edifici degli shtetl restano ancora impressi nella memoria collettiva degli ebrei.
In questo episodio della nostra serie, Samuel Kassow, professore di Storia al Trinity College di Hartford, Connecticut, e autore di numerosi studi sulla storia dell’ebraismo in Europa orientale – ricordiamo “Who will write our history? Rediscovering a hidden archive from the Warsaw ghetto” –, ci condurrà nel mondo dello shtetl, spiegandocene le origini, la storia e le dinamiche interne, ed esaminando lo spazio che esso deteneva e ancora detiene nell’immaginario artistico e popolare.
D: La ringrazio, prof. Kassow, per essere qui con noi oggi. Quando proviamo a immaginare e a farci un’idea degli shtetl, o shtetlekh, molti di noi pensano a Il violinista sul tetto o ad altre rappresentazioni famose. Potrebbe iniziare spiegandoci cosa fosse davvero uno shtetl? Come lo si può definire? Ed è poi davvero necessario darne una definizione? Quali sono le sue origini?
R: In termini giuridici, di definizioni politiche e legali, lo shtetl non esisteva. Per i russi, gli austriaci, i polacchi o gli ungheresi, il termine shtetl era privo di qualunque significato. Era un termine, un termine in yiddish, che gli ebrei utilizzavano, prima della guerra, per indicare città di modeste dimensioni in Europa orientale, dove esisteva una consistente comunità di ebrei che parlavano appunto yiddish. Esistevano molti tipi di shtetl, ma se si vuole una definizione, diciamo così, omnicomprensiva, potremmo dire che si trattava di un insediamento caratterizzato da una presenza ebraica consistente e compatta. Negli shtetl, gli ebrei si distinguevano dai loro vicini non ebrei per religione, occupazione, lingua, cultura. Lo shtetl costituiva anche un caleidoscopio di svariati rapporti economici e sociali.
Uno di questi rapporti vedeva ebrei e contadini interagire nella piazza del mercato. Ancora, gli ebrei si radunavano per officiare funzioni civili e religiose imprescindibili. Se si vuole una definizione di shtetl – e ribadisco che è arduo darne una – la regola, pur imprecisa, che ho applicato nella voce relativa allo shtetl redatta per la YIVO Encyclopedia of Eastern Europe vale quanto le altre: uno shtetl è grande a sufficienza da sostenere una basilare rete di istituzioni necessarie alla vita della comunità ebraica – una sinagoga, un mikveh (bagno rituale), un cimitero, scuole, e una serie di associazioni volontarie (“khevres”) che svolgono funzioni sociali e religiose. Questa è dunque la differenza precipua tra uno shtetl e un “dorf” o “yishuv”, ossia tra uno shtetl e un villaggio o un certo tipo di insediamento rurale: nello shtetl queste istituzioni sono presenti.
A differenza di quanto accadeva in una città o in una “Shtot”, un capoluogo di provincia, tuttavia, nello shtetl ci si conosceva tutti. Nello shtetl le persone si riconoscevano, almeno di vista. Conoscevano probabilmente i nomi di tutti. E, aspetto questo fondamentale, lo shtetl è un luogo dove le persone non si conoscevano solo per nome, ma anche con i propri soprannomi. I nomignoli, che quasi tutti avevano, erano parte essenziale della società dello shtetl. Mio nonno paterno veniva chiamato “Sam l’americano” perché aveva vissuto negli Stati Uniti ed era tornato nello shtetl prima della Prima Guerra Mondiale. Molti dei soprannomi erano tutt’altro che gratificanti. Una donna, che in un libro memoriale raccontava del proprio shtetl negli anni ’30, elencava proprio alcuni soprannomi: Chaim il rosso, Moshe il bello, Faivel “parkh”, a significare che era coperto di rogne (“parkh” significa vermi in yiddish), Elli “boykh”, perché aveva una pancia spropositata (“boykh” indica lo stomaco in yiddish). Avrom “kile” – Avrom l’ernia – Berl il rosso, Henokh colletto di stagno – perché erano vent’anni che non lavava il cappotto e si vedeva, e così via – c’era persino Yankl il gobbo. Questi nomignoli ci ricordano anche che lo shtetl non era quella comunità calorosa e accogliente, in cui ci si aiutava a vicenda, idealizzata, per esempio, ne Il violinista sul tetto. A proposito, nei racconti originali di Sholem Aleichem, “Tevye der milkhiger”, Tevye il lattivendolo, non vive in uno shtetl, ma in campagna: fu in qualche modo calato in uno shtetl dalla produzione di Broadway.
D: Potremmo forse approfondire un aspetto… Abbiamo detto degli shtetl, di cosa accadeva al loro interno, e poi dei vari soprannomi, ma quali ne erano le origini? Perché esistevano? Come ebbero inizio?
R: Come ebbero inizio gli shtetl?
D: Sì.
R: D’accordo. È un’ottima domanda. A voler essere precisi, lo shtetl ebbe origine nell’antica Confederazione polacco-lituana, ossia in Polonia prima che fosse divisa: in questa zona i nobili polacchi erano molto potenti. La nobiltà polacca invitò gli ebrei a stabilirsi nelle proprie terre e a prendersi in carico lavori di prima necessità – il taglio della legna, la distillazione dell’alcol, la gestione delle taverne. Esistevano vari tipi di contratti d’appalto, ma il denominatore comune era un rapporto economico e quasi simbiotico tra gli ebrei e i nobili polacchi. Potremmo paragonare gli ebrei alla batteria che si inserisce in un iPhone, o in un qualunque altro apparecchio, per attivare l’intero sistema economico. Gli ebrei iniziavano a organizzare la vendita di tutti questi prodotti verso mercati lontani. Gli ebrei incoraggiavano anche i contadini a spostarsi uno o due giorni a settimana per fare affari al mercato: anche questa attività era tassata dal nobile polacco, e contribuiva ad arricchirlo. Ora, il punto fondamentale era convincere gli ebrei a stabilirsi in mezzo al nulla. Quello che fecero i nobili polacchi fu dir loro: “Se vi stabilite nella mia città” – che oggi potrebbe essere nel mezzo delle foreste bielorusse o in qualche palude ucraina – “Se vi stabilite nella mia città, vi darò dei privilegi. Vi prometto protezione. Vi prometto che non ci saranno mai giorni di mercato il sabato o in occasione delle festività ebraiche. Potrete vivere tranquilli”. Lo shtetl sviluppò, di conseguenza, alcune caratteristiche fisiche comuni. Gli shtetl erano costruiti attorno alla piazza del mercato. Questo valeva per tutti gli shtetl, dato che la piazza del mercato era il luogo in cui ebrei e contadini si ritrovavano una o due volte a settimana per fare affari. Su un lato della piazza del mercato c’era di solito anche una chiesa cattolica, a indicare che il luogo, di fatto, apparteneva… era di proprietà di un nobile polacco. Lo shtetl aveva per solito una popolazione ebraica molto consistente nel centro della città: più ce ne si allontanava, più si incominciavano a trovare non ebrei o ebrei più poveri.
Uno degli aspetti che, a mio parere, è molto importante sottolineare, è che lo shtetl esteuropeo rappresenta un unicum tra gli insediamenti ebraici della diaspora. Non si ha nulla di analogo allo shtetl in Spagna, in Germania o in Babilonia. Ciò che differenzia lo shtetl è, in primo luogo, il fatto che esso fosse per lo più a maggioranza ebraica, mentre in questi altri stati gli ebrei costituivano spesso una minoranza. Nello shtetl gli ebrei vivevano in ogni area, mentre in Spagna, Germania, Babilonia potevano esserci anche solo poche strade in cui gli ebrei abitavano. Nello shtetl gli ebrei parlavano yiddish, una lingua diversa dalla parlata dei loro vicini slavi e baltici, mentre in Spagna o in Germania il giudeo-spagnolo e il giudeo-tedesco risultavano comprensibili anche ai loro vicini non ebrei. Un’altra significativa differenza tra gli shtetl e altri insediamenti della diaspora era che, mentre i Iraq, in Spagna o in Germania gli ebrei esercitavano per solito un ristretto numero di occupazioni, molto spesso a causa di limitazioni politiche, nello shtetl gli ebrei occupavano tutti i gradini della scala economica – c’erano ebrei facoltosi, imprenditori, abbienti detentori di appalti, i cosiddetti “sheyne yidn” o ebrei benestanti. C’erano poi proprietari di negozi, i “balebatim”, ebrei che godevano di indipendenza economica. Più in basso nella scala sociale si trovavano abili sarti, abili ciabattini e orologiai. Ancora più in basso si potevano trovare i “proste balmelokhes”, ossia comuni artigiani, sarti e ciabattini. C’erano poi i “vaser treger”, gli acquaioli. O, ancora, i “balegoles”, i carrettieri. Questa struttura sociale diversificata si traduceva però in tensioni sociali e in una notevole disparità economica e sociale. Se a questo elemento si aggiungono la diversità linguistica e la maggioranza ebraica, si può dire che fu proprio nello shtetl che gli ebrei dell’Europa orientale divennero un popolo a sé, diverso e peculiare. Gli ebrei dell’Europa orientale divennero una nazione vera e propria, con una propria lingua, un proprio folklore, un proprio umorismo, in una misura che non trova riscontro nel resto della diaspora.
D: Ha ricordato il fatto che gli ebrei fossero una maggioranza, eppure nei territori in cui vivevano essi costituivano ancora, senza dubbio, una minoranza e questo deve aver determinato qualche conflitto. Lo shtetl era davvero un contesto squisitamente ebraico? Che cosa significava essere, al tempo stesso, una maggioranza e una minoranza? Ci può parlare brevemente di questa interazione?
R: Certo. Innanzi tutto, è bene distinguere lo shtetl reale da quello immaginario. Se si leggono autori yiddish, come Sholem Aleychem, o Mendele (Moykher-Sforim), o Sholem Asch, lo shtetl viene rappresentato come un mondo a maggioranza ebraica, è una comunità ebraica. I non ebrei sono pochissimi. In realtà, all’interno dello shtetl i non ebrei rivestono un ruolo fondamentale. Il mercato non è solo un momento in cui ebrei e contadini si ritrovano per commerciare e fare affari: gli ebrei intrattenevano anche rapporti personali con alcune famiglie di contadini in particolare. E questi rapporti interpersonali erano, di frequente, assai solidi. Ora, quando sostengo che lo shtetl era un insediamento a maggioranza ebraica, intendo che ciò avveniva nella più parte dei casi, anche qualora gli ebrei fossero una minoranza in una data provincia. Nella provincia di Vilna o di Minsk, ad esempio, gli ebrei potevano oscillare tra il 10 e il 12-13% della popolazione totale, ma le città in quell’area potevano essere ebraiche all’80 o al 90%. Prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, le città in cui vivevano i miei genitori, nella Polonia nordorientale, erano per il 90% ebraiche. Questo dimostra che, in Europa orientale, gli shtetl si collocavano in aree precipuamente agricole e contadine, in contesti per lo più agricoli, dove solo una minuscola percentuale di persone risiedeva in città. Queste città, tuttavia, erano di frequente a gran maggioranza ebraica. Ciò detto, alla fine del XVIII e all’inizio del XIX secolo, a causa di vari mutamenti socioeconomici, un numero sempre crescente di non ebrei inizia a spostarsi in queste città. Tra le due guerre, molti shtetlekh polacchi smisero di essere a maggioranza ebraica: questo accadde perché vi si trasferirono non ebrei, ma anche perché, di frequente, le autorità polacche annettevano vasti settori della campagna circostante in modo da affievolire il potere degli ebrei nel governo locale. Molti shtetlekh smisero di essere luogo di mercato a causa della ferrovia o perché, in qualche modo, la crescita delle città circostanti li rese dei sobborghi. Così avvenne per gli shtetlekh vicino a Varsavia o nei pressi di Cracovia. A ogni modo, in termini assoluti, in Polonia, ancora alla vigilia della guerra, metà della popolazione dello shtetl era ebrea.
I cambiamenti all’interno dello shtetl sono senza dubbio molto drammatici. Se parliamo dell’Unione Sovietica all’indomani della rivoluzione, non v’è dubbio che la determinazione sovietica a controllare i contadini, a sottomettere le campagne e a tenere sotto controllo la popolazione ebraica significò una trasformazione sostanziale del rapporto tra ebrei e contadini. In Ucraina e in Bielorussia, tuttavia, molti shtetl continuarono a essere, negli anni 20 e 30, insediamenti a maggioranza ebraica, a prescindere dal fatto che avessero acquisito una diversa funzione economica: divennero luoghi in cui ciabattini e sarti ebrei davano vita a dei collettivi, o “artels”; luoghi che rifornivano le fattorie collettive dei dintorni e così via.
Un elemento da ricordare riguardo lo shtetl, tanto in Polonia quanto in Unione Sovietica, è che mentre in città come Varsavia o Cracovia si verificava una rapida acculturazione, per cui sempre più ebrei parlavano polacco anziché yiddish, nello shtetl l’acculturazione fu meno repentina. Gli ebrei restavano inclini a parlare una lingua ebraica. In Unione Sovietica, nonostante la distruzione organizzata dell’ebraismo e del sionismo, il fatto che, all’interno dello shtetl, la maggior parte dei bambini ebrei frequentasse scuole in yiddish costituì una solida barriera contro l’assimilazione. Di conseguenza, una serie di intellettuali ebrei – bundisti, sionisti, comunisti – dipinse lo shtetl come una comunità morente, a stento in grado di reggersi in piedi. Il sionismo e l’haskalah (l’illuminismo ebraico) produssero rappresentazioni sarcastiche, taglienti e pungenti dello shtetl. La verità, però, è che lo shtetl continuò a esistere, continuò a sopravvivere, e fu solo la Shoah che lo distrusse in maniera definitiva.
D: Ha parlato dei diversi gruppi sociali che esistevano all’interno dello shtetl e della gerarchia sociale. Come si riflettevano questi aspetti nelle dinamiche dello shtetl?
R: Le dinamiche interne dello shtetl erano piuttosto complicate. Si avevano, da un lato, parecchie tensioni sociali. Se eri povero e appartenevi a una classe disagiata, ti veniva ricordato in molti modi – dove sedevi in sinagoga, come ti si rivolgevano, il soprannome con il quale ti chiamavano, le chiarissime distinzioni sociali, per cui in nessun modo il figlio di un ciabattino o di un sarto poteva anche solo sognare di sposarsi nella famiglia di uno “shayne yidn” o persino di “balebatim”. Nelle organizzazioni dello shtetl, chi era povero o socialmente inferiore veniva di fatto emarginato. La posizione delle donne povere era probabilmente la peggiore in assoluto. Una donna proveniente da una famiglia povera si trovava ad affrontare tutta una serie di sfide ardue. D’altro canto, lo shtetl prevedeva numerosi ammortizzatori, e garantiva tutta una serie di reti di sicurezza. Nonostante la tensione sociale, e nonostante lo snobismo imperante e la meschinità, gli ammortizzatori erano di primaria importanza. In cosa consistevano? Innanzi tutto, i poveri avevano la possibilità di organizzare un proprio forum, propri luoghi, dove ottenere rispetto e prestigio sociale. Sarti o ciabattini potevano istituire una loro sinagoga, dove avrebbero goduto di tutti gli onori e le “alies” (chiamate alla lettura della Torah) che gli sarebbero stati negati nelle sinagoghe frequentate dalle persone più abbienti. Dopo la Prima Guerra Mondiale, là dove il caos economico fece perdere a molti ebrei il proprio patrimonio, si assistette a una sorta di contrappasso e vi fu un certo livellamento sociale. Gruppi che erano prima malvisti all’interno dello shtetl, come gli artigiani, iniziarono a organizzare i propri sindacati – ad esempio l’“hantverker farayn”, il sindacato degli artigiani –, e domandarono maggiore autorità nella politica dello shtetl. Anche le donne iniziarono a organizzarsi.
Si deve anche tener conto del fatto che l’essenza stessa delle dinamiche della comunità ebraica creava una rete di sicurezza. L’ebraismo imponeva che ai ragazzi venisse insegnato a leggere e a pregare, che gli ebrei non venissero lasciati in condizione di non poter rispettare Shabbat, che gli ebrei che non potevano permetterselo venissero comunque aiutati a osservare la Pasqua. Restare nubile non era un bene. Lo shtetl aveva dunque un’associazione che aiutava le ragazze povere a trovare un compagno, a sposarsi e metter su famiglia. Per quanto la posizione delle donne fosse, in varia misura, inferiore, di fatto l’energia spontanea dello shtetl faceva sì che le ragazze ottenessero un’educazione e avessero accesso ai libri – all’inizio fu Tsene-rene, poi, nel XIX secolo, i feuilleton in yiddish di Ayzik Meyer Dik e altri autori popolari. Lo shtetl era, dunque, una società assai dinamica. Dopo la Prima Guerra Mondiale si iniziarono a formare associazioni che determinarono cambiamenti ancor più significativi – i movimenti giovanili, i movimenti giovanili sionisti come Hashomer Hatsair o Dror. I movimenti giovanili bundisti. Essi rispecchiavano il fatto che una generazione di giovani uomini e donne ebrei, pur crescendo nello shtetl, non era più soddisfatta di un’esistenza regolata e definita da criteri tradizionali. I loro genitori non erano più in grado di proteggerli e di sostenerli. La cultura giovanile era molto, molto potente. Altro importante fattore di trasformazione fu l’impatto delle grandi città: città come Varsavia, dove quotidianamente si stampavano e spedivano giornali che raggiungevano gli shtetl a giorni alterni. Nello shtetl si esibivano gruppi teatrali. C’erano conferenzieri che arrivavano di Shabbat per parlare nell’atrio della caserma dei pompieri. I legami tra lo shtetl e la grande città iniziarono a farsi più stretti. Ancora, quando milioni di ebrei si stabilirono in nuovi paesi, come gli Stati Uniti, l’Argentina e il Sud Africa, iniziò a imporsi il ruolo dei “landsmanshaft”, associazioni istituite da ex residenti dello shtetl nei loro nuovi paesi, che iniziarono a inviare denaro allo shtetl e giocarono un ruolo sempre crescente nel sostenere le istituzioni dello shtetl stesso.
D: Fino a ora, prof. Kassow, abbiamo parlato dello shtetl come di un luogo decisamente reale e tangibile. Lei ha però menzionato anche lo shtetl immaginario, che esisteva al di là dei dati geografici e storici – abbiamo parlato brevemente de Il violinista sul tetto, della mitica Anatevka, di questo mondo immaginario… Di Kasrilivke e Yehupetz, della Vitebsk di Chagall. Potrebbe dirci come lo shtetl reale si trasformò in un luogo immaginario e per quali ragioni?
R: Certo. Qualcosa di analogo accadde nella cultura russa. In un momento in cui la Russia stava attraversando rapidi mutamenti politici ed economici, gli autori russi che si trovarono a fronteggiare questo cambiamento iniziarono a guardare al villaggio, la “derevnya”, come a una sorta di culla della vera cultura russa, la patria naturale del popolo russo. Allo stesso modo, quando il mondo tradizionale ebraico dell’Europa orientale iniziò non dico a sfaldarsi, ma a mutare repentinamente, attraverso l’urbanizzazione, l’industrializzazione, la secolarizzazione, le migrazioni, e così via, ci fu la tendenza a domandarsi: “Bene, noi ebrei siamo un popolo privo di sovranità politica. Siamo privi di potere. In Europa orientale siamo una minoranza. Non abbiamo grandi possibilità di cambiare il mondo. Cerchiamo dunque di capire chi siamo e da dove veniamo”. In questa ricerca per una nuova comprensione di sé e della propria ebraicità, lo shtetl ebbe per gli ebrei lo stesso ruolo che il villaggio ebbe per i russi: lo shtetl poteva imporsi come luogo di origine, come “mondo ebraico”, dove gli ebrei avevano sviluppato la propria cultura popolare. Lo shtetl era autentico in un modo in cui la città non poteva essere, e ancor meno erano paesi nuovi come l’America o l’Argentina. Si poteva quindi scrivere dello shtetl e, così facendo, dar vita a uno spazio immaginario che era interamente ebraico e consentiva di affrontare i problemi e le questioni della vita ebraica, di cercare le contraddizioni e l’ironia dell’esistenza ebraica, di creare una rappresentazione assai umoristica della realtà ebraica. Con la sua lingua, i suoi proverbi, il suo folklore, lo shtetl era una miniera d’oro. E questa capacità di attingere dallo shtetl veniva rafforzata dal fatto che autori come Sholem Abramovitsh o Shalom Rabinovitz, giusto per fare un esempio, non comparivano nello shtetl come Abramovitsh o Rabinovitz, ma come Mendele Moykher-Sforim o Sholem Aleichem: si creavano cioè un doppio, un doppio che non gli assomigliava per nulla. A differenza degli autori reali, che erano… che provenivano da una classe sociale completamente diversa e avrebbero avuto difficoltà a rapportarsi con gli ebrei ordinari dello shtetl, questi, che potremmo definire ologrammi, Mendele Moykher-Sforim - Mendele il libraio o Sholem Aleichem - Sholem "come stai?", erano persone che potevano parlare in yiddish, fare spallucce, spettegolare, prendersi in giro, registrare i drammi, le lamentele e le battute umoristiche dei comuni ebrei dello shtetl, e riciclarli in storie dall’intreccio splendido, che potevano poi essere lette a Parigi, New York o Varsavia, ed essere di stimolo all’introspezione e alla riflessione sulla mutevole condizione del popolo ebraico.
D: Come cambia il mondo immaginario dello shtetl dopo la Shoah, soprattutto per i sopravvissuti provenienti da questi shtetl da poco distrutti?
R: Potrei raccontare un’esperienza che mi tocca quasi in prima persona. Sono figlio di sopravvissuti. Sono nato in Germania, dopo la guerra, in una comunità di rifugiati: nel ripensare allo shtetl, con il passare del tempo, c’era per i sopravvissuti un’aura di nostalgia, soprattutto in occasione delle festività ebraiche. Gli aspetti negativi dello shtetl in qualche modo svanirono e lo shtetl divenne casa. Divenne il luogo nel quale erano cresciuti, dove giocavano, dove avevano famiglie e genitori. Questo aspetto emerge nei libri memoriali. Venivamo da… sia mia madre sia mio padre provenivano da un piccolo shtetl nei pressi di Glubokoye, l’odierna Belarus, che prima apparteneva alla Polonia, e che negli anni 20 e 30 attraversò un periodo di gravissima povertà: esaminando i giornali dello shtetl, si legge di persone che si prendevano a pugni nelle sinagoghe e di rivolte da parte dei poveri che chiedevano aiuti più consistenti per Pesach. Eppure, se leggiamo il Libro Memoriale di Glubokoye, troviamo questa frase: “s'rov fun di yidn hobn gelebt farmeglekh”, si dice cioè che la maggior parte degli ebrei godeva di una certa stabilità economica. Si tratta di una falsificazione bella e buona, che si addice però alla rappresentazione nostalgica di un mondo distrutto presentata in questo specifico libro memoriale. Non è vero per tutti i libri memoriali, ma vale per molti di essi.
D: E per questi sopravvissuti, intendo dire… Non avevano più nulla, la maggior parte di loro aveva perso quasi tutta la propria famiglia: si potrebbe forse dire che avevano la sensazione di acquisire una famiglia creando connessioni – Lei ha menzionato i landsmanshaftn, o forse con i propri concittadini –, c’è forse una famiglia alternativa che si crea attorno allo shtetl?
R: Senza dubbio. A Petah Tikva i miei zii furono molto attivi nell’organizzare Beit Vilna e Beit Glubokoye: per loro era importante – e sono certo che lo fosse per molti sopravvissuti in Israele – che non vi fosse solo il ricordo del loro shtetl, ma un edificio vero e proprio, un centro nel quale potessero incontrarsi e parlare del loro vecchio shtetl, e anche organizzare raccolte fondi per inviare denaro agli ebrei che erano rimasti in URSS e vivevano in ristrettezze. Rimase un elemento molto importante.
D: Grazie prof. Kassow per essere stato con noi oggi e per aver condiviso con noi lo shtetl, reale e immaginario. Abbiamo trasmesso “On the Holocaust” (Sulla Shoah), dallo Yad Vashem. Grazie dell’ascolto.