Introduzione
IntroduzioneLa percezione che comunemente si ha dello shtetl è stata influenzata, in grande misura, da espressioni artistiche di varia natura, che spaziano dalle opere narrative di Isaac Bashevis Singer ai dipinti di Marc Chagall – con figure che fluttuano sopra la sua città natale, Vitebsk –, a video e canzoni de Il violinista sul tetto, un musical ispirato a Tevye il lattivendolo di Sholem Aleichem.
In anni recenti, tuttavia, gli studiosi si sono preoccupati di definire la dicotomia esistente tra lo shtetl nella sua forma immaginaria e lo shtetl come realtà storica.
Nel tentativo di fornire una nostra prospettiva su questo argomento, esamineremo la linea sottile che separa lo shtetl immaginato da quello reale, ponendo a confronto fotografie scattate da Solomon Iudovin, artista e fotografo di origine ebraica, con le opere di alcuni artisti ebrei modernisti – Meer Akselrod, Issachar Ber Ryback, Regina Mundlak e Grigory Inger –, che riproducono aspetti diversi della vita negli shtetl: il mercato, le professioni, le donne degli shtetl e l’educazione ebraica.
Attraverso il dialogo tra mezzi espressivi che dipingono narrazioni (visive) e soggetti analoghi, esploreremo lo shtetl per come lo vedevano questi artisti ebrei, cercando di comprendere in maniera più profonda la sua natura multiforme e dinamica.
L’argomento che stiamo trattando solleva due questioni complesse. Che cos’è, innanzi tutto, lo shtetl? E in secondo luogo, chi è un artista ebreo?
Che cos’è, dunque, lo shtetl (al plurale: Shtetlekh)? Si trattava di un insediamento ebraico isolato e malmesso, afflitto dalla povertà e da continui pogrom, oppure di una fiorente comunità ebraica, vivace come quelle di qualunque altra città europea? Era un mondo unicamente ebraico, con rare interazioni con i vicini non ebrei? Come possiamo cogliere la realtà di ciascuno shtetl, giacché ognuno di essi aveva la propria storia e le proprie tradizioni, ed era un piccolo mondo a sé stante con architettura, abitanti e costumi unici?
Non meno arduo è rispondere alla domanda su chi sia un artista ebreo e su che cosa sia l’arte ebraica, soprattutto in età moderna. Interrogativi sull’esistenza di un’arte ebraica, e su cosa si intenda per arte, fanno parte di un dibattito tuttora in corso in ambito accademico. L’interazione tra identità laica e identità ebraica nelle opere di artisti di origine ebraica ha indotto gli studiosi a domandarsi se tutti gli artisti ebrei producano arte ebraica, o se lo facciano solo quelli che, nella loro arte, enfatizzano la propria identità ebraica.
Le due tematiche, inoltre, sono connesse, giacché lo shtetl non è fondamentale solo per comprendere la cultura e la tradizione ebraica, ma anche per capire l’arte ebraica, dato che molti artisti ebrei influenti nacquero e crebbero negli shtetl. È dunque più che naturale considerare lo shtetl un punto di partenza nello studio dell’arte ebraica.
Le opere presentate in questo studio furono realizzate da artisti meno conosciuti al pubblico: selezionando artisti con estetica e stili differenti, ci siamo poste l’obiettivo di mostrare una tavolozza di concezioni artistiche il più estesa e varia possibile.
Il paragone tra la fotografia documentaria e le opere d’arte ci offre un’idea del variopinto carattere dello shtetl; di come fosse in realtà e della forma che assunse nella memoria collettiva del popolo ebraico. Ci si augura che il materiale visivo e le discussioni presentati porteranno il lettore a esperire gli shtetl in maniera unica e personale, lontana da generalizzazioni e nostalgia intrisa di romanticismo. Mettendo dunque a confronto immagini fotografiche e rappresentazioni dello shtetl in ambito artistico, speriamo di arrivare a una migliore comprensione della realtà di contro alla fantasia e all’immaginazione.
Resta comunque importante ricordare che sia la fotografia sia le opere d’arte sono forme di espressione soggettive, che mostrano il mondo per come l’artista lo vede. Se la più parte delle opere d’arte sono per loro natura considerate altamente soggettive, la fotografia è spesso percepita come in grado di presentare un’immagine oggettiva della realtà. Anche la fotografia, però, è mossa da fattori soggettivi e da scelte creative individuali. Se la si intende in questo modo, la distinzione tra oggettivo e soggettivo diviene relativa e non assoluta.
La spedizione etnografica di An-sky
La spedizione etnografica di An-skyLe fotografie di Solomon Iudovin furono scattate durante la spedizione etnografica organizzata da S. An-sky, autore, drammaturgo e studioso del folklore ebraico. Shloyme Zaynvl Rappoport (1863-1920), noto con lo pseudonimo S. An-sky e ricordato soprattutto come autore de Il dybbuk, nel 1909 prese l’iniziativa di organizzare una spedizione etnografica per documentare la vita degli ebrei nella Zona di Residenza. Nel progetto di condurre questa ricerca, An-Sky ricevette il sostegno della Jewish Society for History and Ethnography.
Tra il 1912 e il 1914, An-sky e la sua équipe condussero in tutto tre spedizioni in oltre settanta città e shtetl nell’Ucraina sud-occidentale (nelle province di Volyn, Podillja e Kyiv). Raccolsero circa 1500 canzoni e 1800 racconti popolari ebraici, 300 oggetti di valore religioso e culturale; realizzarono 500 registrazioni fonografiche e scattarono 2000 fotografie.
L’équipe aveva un interesse scientifico, quello di documentare e quindi preservare il mondo degli shtetlekh, che andava scomparendo e stava cambiando. Secondo An-sky il popolo ebraico avrebbe potuto preservare le proprie identità presenti e future solo facendo riferimento alla propria storia e alle proprie tradizioni. A suo parere, perciò, il moderno ebraismo urbano dell’Impero Russo sarebbe stato in grado di dar vita a una nuova cultura ebraica laica solo se si fosse basato sulla memoria delle strutture che regolavano la vita degli ebrei nello shtetl. La spedizione nacque dunque dal bisogno di documentare con urgenza un mondo che di lì a poco sarebbe irreparabilmente mutato a causa di influenze esterne. An-sky chiese al compositore Iulii Engel, all’etnomusicologo Zinoviy Kiselgof e all’artista e fotografo Solomon Iudovin di accompagnarlo in questa spedizione.
Nel corso della spedizione, Iudovin documentò, in fotografie e schizzi, “tipi antropologici”, luoghi storici, edifici singolari, condizioni di vita e attività quotidiane – il commercio, l’artigianato, così come la sfera educativa e religiosa, fornendoci una prospettiva unica sulla vita quotidiana dello shtetl.
Il mercato
Il mercatoAl centro dello shtetl si trovava un’ampia zona aperta, la piazza del mercato. Era, questo, il centro economico e il cuore pulsante dello shtetl. Oltre al mercato erano i luoghi di culto – sinagoghe e chiese – a dominare il paesaggio. Lo shtetl era spesso un posto misero, con edifici in legno e solo poche case di mattoni: gli incendi erano all’ordine del giorno e avevano di frequente effetti devastanti. Le viuzze sterrate si trasformavano spesso in un pantano. Le condizioni sanitarie e di vita non erano in genere adeguate. Lo shtetl era in larga misura definito da una trama di rapporti economici e sociali tra gli ebrei e i non ebrei, che si sviluppavano e avevano luogo nel mercato.
Una delle fotografie di Iudovin riproduce proprio uno di questi mercati. Nonostante una larga pozzanghera sullo sfondo attiri la nostra attenzione, possiamo intuire la centralità del mercato e la vitalità che caratterizzava lo shtetl quando questo si teneva, con commercianti e acquirenti che vendevano e compravano merci da carri trainati da cavalli. Sono ritratti giovani e anziani, donne e uomini, ebrei e non ebrei: essi mostrano l’intima natura del mercato, luogo di interazione tra comunità diverse.
Un disegno di Meer Akselrod ci dà una rappresentazione leggermente diversa del mercato dello shtetl: ci sono abitazioni, sinagoghe e chiese, prive però di una reale prospettiva, piatte. Sopra uno dei tetti spioventi si intravede uno spazzacamino. Il mercato è rappresentato sullo sfondo, insieme a una pletora di personaggi diversi. Sul lato sinistro, una donna si appoggia a un sacco di mercanzia; alle sue spalle un uomo con le mani alzate, quasi si stesse lamentando con lei; e ancora un venditore che pesa la propria mercanzia e una donna che sta in piedi accanto a lui. Se ci spostiamo verso il centro, una donna regge una cesta e di fronte a lei due bambine sono sedute per terra. Dietro a questo gruppo c’è un carro con due passeggeri. Nel mezzo c’è un gruppo di tre uomini che indossano caftani e parlano tra loro. Alla loro destra, un fattorino o forse un ladro, che porta qualcosa nella mano tesa in avanti oppure cerca di raggiungere la tasca dell’uomo che gli si trova di fronte e che sembra distratto dalla conversazione dei tre uomini vicino a lui. Sul lato destro, un alto violinista e due donne in ginocchio, di cui una con un bambino, che chiedono l’elemosina.
Rispetto alla fotografia di Iudovin, che ci mostra il mercato dello shtetl come luogo di duro lavoro, nel disegno di Akselrod le figure sembrano attori capricciosi su un palco e tutta l’immagine sembra una replica della realtà, quasi una messa in scena di teatro.
Le professioni
Le professioniNello shtetl si vedevano le occupazioni più diverse: c’erano, tra gli altri, appaltatori e imprenditori benestanti, negozianti, commercianti, carpentieri, ciabattini, sarti e acquaioli. In alcune regioni, gli ebrei lavoravano anche come contadini. Da una parte, questa straordinaria varietà contribuiva alla vitalità dello shtetl, ma dall’altra diede luogo a dolorose discrepanze sociali e di classe. Anche se la religione regolava la vita quotidiana, non era l’unica cosa a impegnare gli uomini ebrei: gli studiosi erano una piccola parte elitaria della società. La maggior parte degli uomini degli shtetl lavorava per mantenere le proprie famiglie, per solito nel settore del commercio o dell’artigianato.
Una delle tipiche “professioni da shtetl” era quella del ciabattino. Nella fotografia di un ciabattino scattata da Iudovin, l’immagine ha una singolare qualità pittorica, che sembra emanare dal gioco tra contorni sfumati e nitidi. Il nostro sguardo si focalizza sul ciabattino, ma questi non presta attenzione a noi (o al fotografo) giacché è assorto nel proprio mondo. Scarpe e arnesi sparsi ci dicono che è nel mezzo del lavoro; la persona dietro di lui, che sta guardando dritto verso di noi e verso il fotografo, potrebbe essere un cliente che attende pazientemente che il suo paio di scarpe venga riparato. Non ci è dato dire se il cliente sia ebreo o meno, ma c’è uno spiccato contrasto tra il ciabattino della tradizione, che indossa capi modesti e il tipico kasket, e il cliente – vestito con abiti moderni dell’epoca, che porta un cappello alla moda e si appoggia a un bastone, mentre fuma con calma una sigaretta.
È interessante confrontare l’immagine fotografica del ciabattino realizzata da Iudovin e un dipinto modernista opera di Issachar Ber Ryback che riproduce lo stesso soggetto. Il ciabattino di Ryback si colloca in un ambiente delineato secondo il gusto cubista, con forme semplificate e la rottura della prospettiva. Il ciabattino è ritratto seduto su un basso sgabello accanto al suo tavolo da lavoro, mentre ripara una scarpa. Ha una corta barba nera; il capo è coperto da una papalina rossa. Da una porta aperta si intravvede una strada deserta dello shtetl, con una linea di casupole pressoché identiche e la solitaria immagine di un ebreo alle prese con una capra. Questa scena di strada, con l’uomo barbuto e la capra è in certa misura misteriosa – di primo acchito sembra che l’uomo stia cercando di tirare la capra, ma se si continua a guardare sembra quasi che la capra abbia afferrato le frange del tallit dell’uomo, che a sua volta sta tentando di toglierle dalla bocca dell’animale.
Come nella fotografia di Iudovin, anche il ciabattino del dipinto di Ryback sembra immerso nel suo lavoro, a giudicare dall’espressione contemplativa sul suo volto. Non ci sono però arnesi sparsi, clienti in attesa: pare quasi che il calzolaio stia sognando a occhi aperti. Il motivo della capra potrebbe essere un riferimento al korban, l’animale sacrificale, che secondo alcuni studiosi starebbe a simboleggiare il maltrattamento degli ebrei nell’Impero Russo.
Le donne dello shtetl
Le donne dello shtetlLe donne erano responsabili della vita di famiglia, che riguardava non solo il prendersi cura dei bambini, della casa e dell’osservanza delle pratiche religiose in famiglia, ma anche la sussistenza economica. Gli uomini detenevano posizioni di potere, controllavano la comunità e, certo, la sinagoga. Dietro le quinte, tuttavia, le donne rivestivano spesso ruoli chiave nella vita comunitaria ed economica dello shtetl.
Nella fotografia, vediamo lo splendido ritratto di un’anziana ebrea. Il lucore della sua pelle e la trama soffice e setosa delle sue vesti contrastano intensamente con il legno dello sfondo, creando una sensazione di calore e intimità, di sicurezza domestica. L’immagine pare velata di nostalgia, quasi dipingesse la matriarca archetipica dello shtetl – forte e sicura.
Regina Mundlak ritrasse sua nonna in maniera analoga. L’artista ce l’ha presentata con indosso vestiti eleganti e un elaborato shterntikhl, un copricapo tradizionale portato dalle donne ebree maritate, e con un bastone nella mano destra. La Mundlak ha riprodotto realisticamente le rughe profonde, il naso prominente, e la pelle cascante del volto della nonna, senza alcun pathos e senza cercare di abbellire il soggetto. Dall’opera traspare una sensazione di nostalgia – l’artista appartiene ormai a una nuova generazione di donne, esposte al mondo esterno oltre gli angusti confini dello shtetl.
L’espressione della donna nella fotografia di Iudovin tradisce la autostima e sicurezza. Analogamente, l’intera postura della figura ritratta dalla Mundlak suggerisce l’idea di una donna determinata e risoluta. Le due immagini mostrano le donne dello shtetl, orgogliose e autonome.
L’educazione ebraica
L’educazione ebraicaNegli shtelekh, l’educazione religiosa era considerata di primaria importanza. I ragazzi studiavano in un cheder (lett. “stanza”, NdT), una scuola elementare tradizionale dove si insegnavano i fondamenti dell’ebraismo e la lingua ebraica. I figli di genitori benestanti erano di solito istruiti a casa da un insegnante privato. Oltre ai chederim, esisteva anche il Talmud torah, una scuola comunitaria per l’educazione dei poveri e degli orfani. Gli studenti ambiziosi che desideravano diventare rabbini proseguivano i loro studi in una yeshiva. C’erano di frequente anche scuole elementari separate per le ragazze. In alcuni shtelekh c’erano anche chederim liberali per bambini di entrambi i sessi, dove l’insegnamento era condotto in ebraico.
Nella fotografia di Iudovin, vediamo un insegnante di cheder con un gruppo di bimbi, alcuni immersi nello studio, alcuni che apparentemente attenti, mentre il bambino in primo piano è completamente avulso dalla scena, lo sguardo dritto verso la macchina fotografica, annoiato o impegnato a inseguire i propri pensieri.
Anche in un dipinto di Grigoriy Inger che ritrae un cheder dello shtetl vediamo un maestro e i suoi giovani studenti. Le immagini sono distorte, quasi poetiche nella loro infantile ingenuità, con sfumature di colore calde e allegre. Il linguaggio visivo rivela l’esperienza dell’artista con l’avant-garde e il Primitivismo russi. La figura del maestro, sproporzionata rispetto alle dimensioni della stanza, sembra rivelare il tentativo, da parte dell’artista, di dipingere il punto di vista di un bambino o l’esperienza infantile di studio in un cheder. Attraverso il fiducioso sguardo infantile, il dipinto ci espone al mondo dell’educazione ebraica con una tale onestà che i colori brillanti e le immagini distorte non paiono innaturali, ma al contrario intensificano e acuiscono la realtà.
Il dipinto del cheder di Inger rischia di sembrare quasi ridicolo, ma dietro i tratti grotteschi e comici del maestro e degli studenti esprime un legame profondo e particolare con la tradizione dello studio, tanto radicata nel mondo ebraico. La fotografia di Iudovin, d’altro canto, ci mostra studenti di vario tipo, alcuni completamente immersi nei loro studi, altri intrigati dalla macchina fotografica, che possiamo forse considerare metafora del mondo esterno, nuovo ed eccitante.
Conclusioni
ConclusioniSia nella sua forma idealizzata sia quando era presentato attraverso dati storici, lo shtetl era il cuore dell’ebraismo est-europeo e la culla di una ricca letteratura e cultura in yiddish. La vita degli ebrei in Europa fu cambiata per sempre dalla Shoah. Gli shtetl non esistono più, ma continuano a essere oggetto di studio e a essere ricordati in opere letterarie e d’arte.
Gli artisti le cui opere abbiamo presentato in questa sede furono influenzati dall’idea di An-sky che la creazione di un’identità ebraica moderna, emancipata, e laica sarebbe stata possibile solo tornando all’eredità dello shtetl e alla sua cultura popolare. Essi accolsero questa nuova identità laica sentendosi al contempo vicini alle radici e all’eredità visiva del loro popolo. Quando si spostarono dai loro shtetl a centri più grandi come Kyiv, San Pietroburgo, Mosca o ancora più lontano – a Berlino o a Parigi, questi artisti assorbirono gli stili avanguardistici dell’epoca, come l’avant-garde russa, il fauvismo, l’espressionismo, il cubismo e il surrealismo, che rivendicavano la forza estetica dell’arte popolare e tribale. Gli artisti svilupparono dunque i propri stili unici, rappresentando tematiche ebraiche in una mistione di arte popolare e di elementi di varie correnti dell’arte moderna. Si ha inoltre l’impressione che gli artisti fossero mossi da un senso di nostalgia simile a quello di An-sky, e che comprendessero l’importanza della memorializzazione della vita ebraica tradizionale che stava lentamente scomparendo e che sarebbe stata, alla fine, distrutta completamente.
L’ambiente dello shtetl da cui i nostri artisti provenivano era peculiare sotto diversi aspetti, e l’arte non fa eccezione. La tradizione ebraica condannava l’attività artistica, considerandola una violazione del secondo comandamento: “Non ti farai alcuna immagine scolpita”.
Gli artisti dipinsero i loro villaggi e le loro città, vie, varie tipologie umane e scene della vita della popolazione ebraica dello shtetl. Condussero le proprie ricerche artistiche, influenzati dai movimenti europei di avant-garde, e alcuni di loro divennero artisti di fama mondiale. La maggior parte degli artisti e delle artiste non esemplificarono la propria visione del mondo dello shtetl, ma piuttosto ricordi della propria infanzia. Al tempo stesso, le rappresentazioni dello shtetl di Iudovin se ne distinguono, sia per la scelta del mezzo fotografico, sia per il senso di urgenza che lo guidava nelle sue opere, sì da documentare quanto più possibile di un mondo che andava scomparendo.
Fotografie e opere d’arte sono importanti, sia come fonti documentarie su comunità ormai scomparse, sia per il loro intrinseco valore artistico. Tralasciando il fatto che le opere alludano alla realtà o all’immaginazione, esse ci offrono uno sguardo unico, che trascina noi osservatori dentro al complesso mondo dello shtetl, presentando storia e tradizione ebraica ed evocando la distruzione causata dalla Shoah.2000).